L’anniversario – da “anno” e dal verbo latino “vertere”, cioè volgere – è una ricorrenza usata per ricordare e celebrare, con cadenza annuale, un accadimento riguardante una persona, un collettivo, l’intera umanità o semplicemente un evento naturale di particolare rilevanza: per esempio, la nascita di Michelangelo, il 6 marzo 1475, o l’anniversario della liberazione, il 25 aprile 1945, o il tragico terremoto di Messina del 28 dicembre 1908. La scelta dell’anno come passo di scansione della memoria è collegata al compiersi del transito del Sole tra le costellazioni dello zodiaco, un fenomeno astronomico del quale gli uomini recepiscono gli effetti tramite il ciclo delle stagioni. La rinascita in primavera, seguita dall’esplosione estiva della natura sino al letargo dell’inverno, configura infatti un tempo ciclico che suscita stupore ed invidia negli uomini condannati a brevi parentesi di tempo lineare confinate tra l’alfa della culla e l’omega della tomba. Insomma, gli anniversari sono pretesti per rileggere il passato, gioendo o dolendosene a seconda dei casi. In questo senso va intesa la commemorazione che quest’anno si fa di una formidabile terna di scienziati, Galileo Galilei, Dmitrij Mendeleev e George Gamow, nati rispettivamente 460, 190 e 120 anni or sono, ossia 46, 19 e 12 decenni fa. Una coincidenza priva di valore sostanziale e nemmeno troppo elitaria (la faccenda si ripresenta identica ogni 10 anni). Essa ci consente però una riflessione sulla storia della cosmologia moderna, in quanto ai tre personaggi sono collegate altrettante pietre miliari nel percorso di questa scienza. Vediamo come e perché, cominciando con Galilei, colui che, per dirla col Foscolo, “sgombrò per primo le vie del firmamento”.
Prima che, nell’autunno del 1609, il grande pisano puntasse al cielo il suo cannocchiale, il cosmo veniva inteso come un’angusta sfera, una bomboniera incastonata di stelle contenente un sistema di corpi vagabondi centrato sulla Terra secondo la tradizione tolemaica, o sul Sole a dar retta a Copernico. Un mondo chiuso, animato da perfetti moti circolari, creato con un atto divino per servire alla caduca esistenza umana restando sempre uguale a sé stesso, nei secoli dei secoli. Con un uso sapiente e coraggioso del telescopio, Galilei si convinse invece che il firmamento, lungi dall’essere quel sottile confine tra l’universo osservabile e Dio – quell’ottava sfera che, per esempio, ritroviamo nella struttura del Paradiso dantesco – fosse invece la proiezione di sterminate praterie di stelle distribuite in profondità, proprio come aveva intuito Giordano Bruno qualche decennio prima. Il nolano aveva pagato col rogo la sua ostinata difesa degli infiniti mondi che, con la loro semplice esistenza, sbiadivano i primati attribuiti dall’uomo a sé stesso e al proprio habitat. Il pisano riuscì invece a salvare la pelle ritrattando le proprie convinzioni cosmologiche. La Chiesa, era riuscita a zittirlo facendo leva sulla paura; ma il seme gettato dal “Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo”, concimato dalla persecuzione che aveva reso l’autore ancor più popolare, fiorì rigoglioso.
A cavallo tra Sette e Ottocento, la finestra aperta sulla Via Lattea da Galilei venne spalancata dai potenti strumenti e dalla straordinaria passione di due geniali stakanovisti della scienza, l’astronomo anglo-tedesco William Herschel e suo figlio John. Così, nuove domande si affacciarono alla mente dei filosofi naturali; non più solo questioni che oggi chiameremmo di Meccanica Celeste, riguardanti le orbite dei corpi circumsolari e trattabili con la neonata fisica di Newton, ma quesiti sulla natura delle stelle e sul funzionamento dell’astro per eccellenza, il Sole. Grazie agli studi di termodinamica e dei meccanismi per ricavare lavoro, cominciava anche a farsi strada l’idea che nulla fosse immutabile ed eterno, a parte Dio. Una visione delle cose del mondo e del ruolo del tempo già presente nel pensiero del filosofo presocratico Eraclito di Efeso.
Finalmente, a metà dell’Ottocento si scoprì come interrogare la natura scansionando i colori della luce mediante la tecnica spettroscopica, di cui furono pionieri il tedesco Joseph Fraunhofer, l’inglese William Huggins e l’italiano Angelo Secchi, e ci si cominciò a chiedere come fosse fatta la materia, “così in cielo come in terra”. Chimici, fisici e astronomi, ciascuno a suo modo, accumulavano dati sperimentali in quantità crescente nella speranza di trovare il bandolo della matassa. Un fondamentale passo avanti venne fatto nel 1869 da un professore dell’Università di San Pietroburgo. All’epoca, grazie al francese Antoine-Laurent de Lavoisier, un genio che aveva lasciato la testa sulla ghigliottina dei giacobini, si sapeva dell’esistenza in natura di sostanze che non possono essere decomposte mediante analisi chimica. Sostanze elementari, dunque! Una nozione che nel 1808 lo scienziato inglese John Dalton aveva canonizzato introducendo il concetto di atomo, l’indivisibile dei greci, caratterizzandone la diversità tramite la densità. Per andare oltre bisognava snidare delle proprietà che facessero da guida a un modello fisico. Provarono in molti, soprattutto in Germania e in Inghilterra, ma a riuscirci fu Mendeleev. Mentre stava scrivendo una dispensa sui Princìpi della chimica, il professore russo s’accorse che i 63 elementi allora conosciuti presentavano delle caratteristiche ricorrenti. Usandole per mettere ordine, egli fu indotto a ipotizzare l’esistenza di tre nuovi elementi non ancora conosciuti. Quando essi vennero scoperti, divenne chiaro come le ricorrenze fossero la manifestazione di un’organizzazione interna all’atomo che attendeva solo di essere trovata: cosa che avvenne all’inizio del Novecento soprattutto per merito del danese Niels Bohr.
Ormai la cosmologia dei barioni (ossia delle particelle pesanti che formano i nuclei atomici) s’era estesa al vasto “regno delle galassie”, sistemi di stelle pari alla Via Lattea la cui natura era stata definitivamente accertata nel 1925 dallo statunitense Edwin Hubble.