Giobbe Covatta, nuovo libro dal 15 maggio: «Ve la do io l’Africa: milioni di piedi scalzi»

L'attore napoletano nel libro scritto con la moglie si racconta come un «commosso viaggiatore»

Giobbe Covatta in Africa
Giobbe Covatta in Africa
di Stefano Prestisimone
Domenica 12 Maggio 2024, 17:25 - Ultimo agg. 13 Maggio, 07:51
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«Appena l’aurora si fa spazio, milioni di persone si mettono in marcia. In nessun’altra parte del mondo ho visto tanta gente camminare: per trovare un lavoro, per prendere l’acqua, per raggiungere la scuola o un posto dove essere curati, per sfuggire a guerre e carestie. Milioni di piedi scalzi calpestano la terra d’Africa. Le scarpe si tengono in mano per non rovinarle. Mi faceva tenerezza quando giocavamo a pallone, bianchi contro neri: noi prima della partita ci mettevamo le scarpe da ginnastica, loro se le levavano. Se dovessi descrivere l’Africa con una manciata di parole direi: piedi scalzi che marciano».

È uno dei momenti riflessivi del nuovo libro di Giobbe Covatta e della moglie, Paola Catella, Il commosso viaggiatore (Giunti, pagine 208, 16 euro), in vendita dal 15 maggio, un volume che gioca con le parole a partire dal titolo, che si muove sul filo sottile che separa la comicità dalla tragedia. Un tuffo nel continente africano tra avventure surreali ed esperienze toccanti con un curioso gruppo di sodali: oltre alla moglie chiamata dagli africani Mama Paula, ci sono Tic Tac, Angelo Franchi, Provolazzi e Tom Tom.

Giobbe, questi trent’anni di viaggi in Africa per motivi filantropici vi hanno cambiato la vita?

«Non c’è dubbio.

Ma cambia l’approccio alla vita, è il modo in cui vedi le cose che è diverso. Ma è cambiato anche il lavoro, perché io oggi nel mio mestiere mi occupo quasi solo di diritti, che siano delle donne, dei bambini, dei naufraghi migranti. Ma questa affezione l’ho sviluppata perché ho potuto toccare con mano la negazione di questi diritti, soprattutto in Africa. E anche in modo crudo e brutale, senza pudore. E tutte queste cose che per fortuna sono riuscito a vedere, e a far vedere a mia moglie e a mia figlia, hanno costruito le nostre coscienze. Siamo sempre il risultato della nostra storia».

La commozione del titolo quindi è reale.

«Le emozioni e i momenti di commozione sono tantissimi e neanche sempre palesati nel libro per una questione di pudore dei miei sentimenti. Anzi sono più quelli che mancano. Uno gli episodi descritti accadde in Etiopia, nel 2010. Eravamo lì per un progetto di scolarizzazione e io facevo l’aeroplanino per far divertire i bambini e loro in tanti mi seguivano con le braccia aperte. Fino a che una mamma mi fermò, con grande garbo. E mi disse sottovoce: “Non li far correre troppo perché sennò gli viene fame”. Stupore, sgomento, senso di colpa, ma soprattutto la consapevolezza di quanto siano incredibilmente fortunati i nostri figli».

Viene posto anche l’accento sulla differenza tra viaggiatore e turista.

«Si ma senza criminalizzare questa seconda categoria, perché io pure sono uno da vacanza. Però c’è una differenza importante e le due cose non si possono confondere. Il viaggiatore si sposta per conoscere, il turista per farsi riconoscere. La prima categoria entra nel tessuto del luogo, frequenta le persone, prende i mezzi pubblici, si immerge in quella realtà. Il turista spesso torna a casa senza avere la minima idea di dove sia stato ma con migliaia di foto da mostrare ad amici e parenti».

Il genocidio del Rwanda?

«Ci sono finito nel mezzo, ero lì in quel momento, era il 1994, ed è stato surreale. Mezzo milione di morti per la strada uccisi con machete, mazze ferrate. Una cosa inimmaginabile e difficile da comprendere e da accettare. Perché a noi sfugge la logica».

Poi ci sono momenti tragicomici.

«Andammo in Sudan nel 2011 dopo che era diventato stato indipendente, pensavamo di trovare un paese in festa trovammo un disastro: c’era un’emergenza sanitaria mostruosa e una carestia inimmaginabile. Dormimmo in un ex campo profughi gestito da un indiano molto gentile. Dopo le istruzioni di prammatica, ci diede le chiavi. Fatta qualche decina di metri mi girai e dissi: “Ma il bagno è in camera?” e lui mi rispose: “No, è in Camerun”».

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Episodi in cui ha avuto davvero paura?

«In Sudan mi spararono addosso ma senza colpirmi. Ero in una “white car” di una onlus e da lontano cominciarono a sparare. Ma per fortuna andò bene. E ne ho un’altra. Tempo fa con Tic Tac eravamo nel punto dove da una parte c’è il cartello Kenia e dall’altro c’è Tanzania, proprio sul confine, e scendemmo dall’auto per fare un po’ gli scemi. Tu dove stai? Io sto in Kenia. E lui: io sto in Tanzania. Ma intanto una leonessa stava dicendo ai cuccioli: abbiamo trovato da mangiare. Come si mosse, noi corremmo come pazzi alle macchine che per fortuna erano molto vicine. E ce la cavammo».

Ma con Mama Paula tornerete in Africa?

«Manchiamo da un po’, oggi è ancora più complicato spostarsi perché ci sono tantissimi problemi, frontiere chiuse, guerre nel Sahel, Burkina Faso, Mali. Bisogna avere il fisico, ma ci torneremo».

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