Eduardo, gli incantesimi di un classico | di Toni Servillo

Eduardo, gli incantesimi di un classico | di Toni Servillo
di Toni Servillo
Venerdì 31 Ottobre 2014, 15:32 - Ultimo agg. 2 Novembre, 18:04
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Più passa il tempo, più cresce in me la sensazione che per ragioni anagrafiche, per provenienza, formazione, familiarità, Eduardo rappresenti un unicum. Perché unico è il modo in cui, nella sua produzione, certi contenuti legati alla sfera del profondo vanno ad intercettare una forma, un linguaggio, una drammaturgia.



Ed è un’occasione felicissima per un attore affrontare Eduardo sul doppio binario del vissuto e di un linguaggio teatrale che rende l’esperienza esaltante e autentica. Mantenendosi al centro di una dimensione colta e popolare.



Non è la sola ricchezza che arriva dall’universo eduardiano, un mondo espressivo complesso dov’è impossibile separare il grande interprete dal grande drammaturgo. Il suo linguaggio è un elemento di modernità perché non pone limiti alla sperimentazione artistica e, nello stesso tempo, avverte forte l’urgenza civile di dire pane al pane e vino al vino. Il teatro di Eduardo, al fondo, non fa che raccontare il conflitto dell’uomo con la società.

La sua è una figura di artista completo, e anche una figura morale. E questo doppio aspetto lo rende un classico, secondo la bella definizione di Italo Calvino: «Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quello che ha da dire».



Ecco, Eduardo è un autore che non ha mai finito di dire quello che ha da dire. Che a volte ti suggerisce di poter dire qualcosa che sembrava non fosse stato ancora detto.



Un classico. Da interrogare per cercare di fargli esprimere qualcosa che si ritiene quei testi non abbiano ancora detto. Già contenuta, ma ancora silenziosa. È questo il lavoro dell’interprete. E anche qui interviene un’ulteriore e straordinaria lezione, perché Eduardo è attore e autore e con la sua recitazione dà segnali che smentiscono la pagina scritta. In questo senso mi piace dire che Eduardo è il nostro Molière. Un attore che ha scritto straordinari copioni e che sapeva, al di là delle teorie, che l’importante nel teatro è la prassi, che il teatro non può che nascere dal teatro stesso. Eduardo riteneva, a ragione, che il teatro è come la vita: passa e si trasforma.



Ci troviamo di fronte a un uomo che ha messo insieme una raffinatissima arte recitativa, livelli di decantazione sublimi, mai abbandonando però la dimensione schiettamente popolare della propria drammaturgia. Un processo artistico molto interessante, una fonte inesausta di conoscenza. Penso, per esempio, ad alcuni casi emblematici, all’incipit di «Natale in casa Cupiello» o all’ingresso in scena del sindaco del Rione Sanità: in quei momenti di silenzio aspettiamo di vederlo recitare, poi ci accorgiamo che ha già cominciato a farlo e, quando prende a dire le battute, abbiamo l’impressione che non stia recitando più.

Ecco il suo incantesimo: darsi e sottrarsi alla recitazione in un respiro armonioso che lo fa unico. Un maestro della nobilissima arte recitativa, espressione inarrivabile di un mestiere tante volte vituperato per chi lo fa in maniera volgare, esibita, commerciale e per l’autocompiacimento intellettualistico di chi contribuisce a renderlo sterile.



Eduardo, invece, non conosceva pose intellettualistiche, pur essendo consapevole di incarnare un fenomeno. Nel teatro ha sempre cercato l’uomo e questa indagine preziosa rende la sua esperienza artistica universale. Mai come oggi abbiamo bisogno di maestri della sua statura che ci indichino la strada, non solo di eccentrici fuori dal coro.



Le sue commedie ci parlano. Nei due testi che ho messo in scena a distanza di dieci anni, «Sabato, domenica e lunedì» e «Le voci di dentro», ravviso le due anime di Eduardo, due anime speculari: nella prima c’è il racconto affascinante di quanto vi può essere di drammatico nella banalità (l’apparente risentimento di Rosa e Peppino Priore sulla qualità del ragù), e come in un chiasmo, nelle «Voci di dentro», emerge prepotente il tema di come nell’ovvio possa nascondersi qualcosa di mostruoso. Due aspetti: uno declinato nella solarità della domenica, l’altro nel buio di un antro profondo come la coscienza sporca dell’uomo, illuminato dai fuochi d’artificio profetici e amarissimi di zi’ Nicola.