Le luci e le ombre del mito Eduardo| di Roberto de Simone

Le luci e le ombre del mito Eduardo| di Roberto de Simone
di ​Roberto De Simone
Giovedì 6 Novembre 2014, 15:30 - Ultimo agg. 17:15
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Le recenti celebrazioni defilippiane, a trent'anni dalla morte dell'attore-drammaturgo, avrebbero potuto mettere in atto una rilettura storica e critica della produzione eduardiana, ed invece dànno luogo a una atrofizzata liturgia encomiastica, prodotta da una asfittica napoletanità incapace culturalmente di collocarsi nel presente e di valutare nella contemporaneità o nelle proiezioni future quegli elementi atti a superare il sentimentalismo dei tempi trascorsi e inserirsi in un contesto di lucido giudizio.





Sarebbe bastato, come base di partenza, riconsiderare i giudizi critici del passato sul De Filippo, prima che l’Ufficialità ne canonizzasse il mito e ne sancisse la monumentalità nazionale e indiscutibile. Quindi, collocando il celebrato autore nella realtà del suo tempo in rapporto col suo farsi, procederemo a varie considerazioni di merito o di demerito.



Fino alle soglie degli anni ’50 era presente a Napoli una variegata tradizione teatrale, del tutto oggi obliata e cancellata dalla successiva omologazione al modello eduardiano. Era allora vivo Salvatore De Muto, il Pulcinella che derivava il proprio stile da Antonio Petito con forti connotazioni linguistiche e accentuate somatizzazioni ritmiche. Con lui agiva un gruppo di comici composto da Eduardo Guerrera, Nello Ascoli, Luisella Viviani, Roberto De Simone , mio avo paterno, Anna Walter alias Cannio e Rosa De Muto, che sembravano ribadire una nobile discendenza dalla Commedia dell’Arte. Con diverso stile agivano gli attori scarpettiani, quali il Maringola, Tecla Scarano, Gennaro Di Napoli, Agostino Salvietti, Ugo D’Alessio, tutti connotati da una recitazione quasi declamata, ma aderente a uno stile rappresentativo di stupefacente artificio e, nel contempo, di convincente verità teatrale. Erano poi attive diverse compagnie di sceneggiate nelle quali resistevano i gloriosi allori dei Cafiero, dei Fumo, dei Di Majo, dei Maggio, dei Bruno.



Di tutti costoro emergevano più accentuate stigmatizzazioni di teatralità popolare, ai confini di una prosodia ritmica e di una esasperazione gestuale di tipo istrionico, coniugata ad un dialetto giullaresco. Ad ogni modo il comune denominatore dei suddetti teatranti era costituito dalla sapienza con cui essi introducevano nei testi l’elemento dell’improvvisazione, il cosiddetto lazzo comico, riservato esclusivamente ai protagonisti, detentori delle tecniche e dei tempi teatrali, che garantivano all’estemporaneità l’efficacia degli esiti. Può considerarsi esemplare, sull’arte dell’improvvisazione, una scena cinematografica recitata da Antonio De Curtis (Totò) e Peppino De Filippo nel film «Totò, Peppino e la malafemmina».



Si assiste a una irresistibile dettatura di una lettera, prodotta a braccio o all’improvviso, come si diceva, da un duo zannesco, in cui la genialità linguistica di Totò e quella caparbia e succuba di Peppino, nel ruolo di spalla, valgono stilisticamente la quasi totalità delle commedie eduardiane. All’opposto, nel teatro di Eduardo la rappresentazione, articolandosi per lo più fra le quattro pareti di una stanza, risulta connotata da un intimistico recitare sommesso, crepuscolare, da controllata gestualità di tipo naturalistico che spesso approda a un realismo cinematografico. Inoltre ai suoi attori era tassativamente negata ogni possibilità di improvvisazione, esigendo egli una totale e rigorosa fedeltà al testo scritto.



Tali canoni rappresentativi, estranei alla tradizione, avrebbero potuto costituire la cifra propria di uno stile personale, se non fossero assurti a codici universali cui far riferimento per ogni di tipo di teatro, compreso quello vivianeo o scarpettiano. Nel frattempo Salvatore De Muto si era estinto, il teatro di sceneggiata cedeva il passo ai cingolati mediatici che progressivamente avanzavano, e i superstiti attori di una antica e conclamata tradizione sparivano per anzianità o per mancanza di scritture, senza lasciare eredi o tracce documentate della loro arte. Il languente teatro scarpettiano era rilevato dallo stesso Eduardo che ne tentava una riproposizione personale al San Ferdinando.



Ma gli inflessibili canoni realistici di recitazione e l'esclusione dell'improvvisazione dai testi, nonché la scelta di attori diversi da quelli tradizionali, determinarono il fallimento di un revival che pur si valeva di una compagnia denominata, infelicemente o contraddittoriamente, “scarpettiana”. L’attività produttiva del drammaturgo si orientava mano a mano verso un teatro contenutistico e moralista, a discapito dell’agogica teatrale, che trovava ampio consenso e favore nella napoletanità neo-trasformista borghese e piccolo-borghese, sempre sensibile ai pistolotti di battuta.



Il linguaggio dialettale subiva graduale attenuazione a favore di una italianizzazione delle forme idiomatiche per risultare più comprensibile a Roma, a Firenze e a Milano. Il visionarismo trattato in «Questi fantasmi!», pur facendo riferimento a una tradizione che affondava le radici in una religiosità antropologica, appariva spesso svuotato dei suoi significati originari, e ridotto a innocuo elemento folcloristico di facile accatto e di piacevole gradimento, da accomunare al ragù, alla tazza di caffè e al repertorio convenzionale dell’eduardità malgrado lui. Il tardo populismo, in cui si aduggiavano «Il figlio di Pulcinella», « De

Pretore Vincenzo», «Il sindaco del Rione Sanità», «Tommaso d'Amalfi» e «Napoli milionaria!», indulge spesso a considerazioni retoriche che si risolvono in una teatralità reumatica e in una drammaturgia strabica e ingessata.



In altre commedie, come ne «La grande magia», l’elemento fantastico è sopraffatto da una fantasmagoria interiore e da una concettualità di preoccupazioni fumose. Molti motivi già consegnati alle scene da un Andreev, da un Molnar, da un Guitry, si accampano in un grottesco di lezione petitiana. Se Eduardo avesse spinto il pedale della tradizione comica, come in «Sik-Sik», avrebbe scritto la più compiuta e moderna farsa, il che, purtroppo, non è avvenuto. Risulta evidente nell’Autore un insanabile conflitto tra spinte interiori e freni intellettuali, derivati da una natura ripiegata su se stessa e autoreferenziale, relativa al dramma di avere un nome senza cognome.



Non mancano, tuttavia, nella produzione defilippiana improvvisi lampi di genio, dovuti all’uomo di teatro, come in «Sabato, domenica e lunedì» quando un giovane fratello della serva immotivatamente distribuisce bastonate ai passanti per strada, o come in «Le voci di dentro», quando l’anziano zì Nicola, relegato in soffitta, comunica solo esprimendosi con imitazioni fonetiche di fuochi artificiali. Sono questi eccezionali segni di illuminante astrazione da un contesto realistico, da collocare in relazione ai più esasperati marionettismi del teatro futurista, sebbene la critica abbia sempre rilevato solo un certo pirandellismo – mai chiarito – nei testi del Nostro. Poi, malgrado i clamorosi successi di «Napoli milionaria!» e di «Filumena Marturano», la reazione al perbenismo e al patetismo di alcune tirate eduardiane travolse le più giovanili coscienze napoletane e nazionali.



L’arrivo in Italia del Living Theatre picconò senza riserve tutto il teatro di parola collocandosi all’opposto del moralismo e del familismo espressi dalle Filumene o dai protagonisti di «Sabato, domenica e lunedì». A Napoli, la marginalità del circondario urbano esplodeva con il complesso musicale di «Napoli centrale» in cui l’asprezza linguistica di James Senese e di Pino Daniele, rappresentavano la chiara reazione all’appiattimento dialettale del De Filippo. In Inghilterra, invece, l’avvento dei fermenti suscitati dalla dirompenza rivoluzionaria e demolitrice dei Beatles aveva anche prodotto una reazione nella borghesia che identificò nei contenuti eduardiani la rappresentazione della propria crisi. Questo sancì al Lyric Theatre il successo di alcune commedie quali «Sabato, domenica e lunedì» e «Filumena Marturano», tradotte in inglese e recitate addirittura dall’attrice Joan Plowright. Purtuttavia, in Italia, con la fine dell’egemonia democristiana, l’avanzata al potere delle sinistre produsse un ulteriore consolidamento del mito eduardiano, avviando la nominanza del drammaturgo a traguardi agiografici.



In questo modo la politica fece propri i temi filumeneschi, cupielleschi, jovineschi, ricambiando l’attore con la nomina di senatore a vita, e con una eduardoteca prodotta dalla televisione di Stato. L’imbalsamazione era compiuta già in vita.