Lavoro, contratto a tutele crescenti: ecco le due ipotesi del governo

Lavoro, contratto a tutele crescenti: ecco le due ipotesi del governo
di Giusy Franzese
Martedì 2 Settembre 2014, 08:08 - Ultimo agg. 17:15
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La parolina magica : contratto a tutele crescenti. Sulla sua introduzione, ha ragione il premier, sono tutti d’accordo.



Peccato, però, che sul contenuto, o meglio sulla durata, le strade divergono: una parte della maggioranza vorrebbe che fosse per sempre, un’altra solo per tre anni dall’assunzione. È su questo crinale che si gioca la difficile partita del Jobs act targato Renzi-Poletti. È su questa tavolo che si capirà la reale portata rivoluzionaria della nuova riforma del mercato del lavoro. Sullo sfondo c’è il tabù dei tabù: l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, quello che prevede la reintegrazione sul posto di lavoro per chi è stato illegittimamente licenziato.



Per il resto, su cinque delle deleghe richieste nel Jobs act, quattro sono a buon punto. Già prima della pausa agostana, infatti, la commissione Lavoro del Senato presieduta dall’ex ministro Maurizio Sacconi (Ncd) ha esaminato, discusso, emendato e approvato tutti gli articoli del ddl delega. Certo, il provvedimento è solo al primo step: deve passare ancora l’esame dell’aula di Palazzo Madama e poi percorrere tutto il suo iter alla Camera dei Deputati. Il governo conta su l’ok definitivo entro la fine dell’anno. In ogni caso, almeno fino ad ora, l’accordo c’è sulla riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e politiche attive, sulla semplificazione delle procedure e degli adempimenti, sulla maternità e conciliazione dei tempi di vita e di lavoro.



Resta quindi da superare lo scoglio più insidioso, quello che da decenni impegna il nostro Paese in estenuanti e accese discussioni. Lo Statuto dei lavoratori è uno strumento datato 1970 quando il mondo era tutto diverso, sostengono coloro che vorrebbero abolirlo o ”superarlo“; una tutela indispensabile, replica il fronte di chi vuole che, in questo campo, nulla cambi. Il mondo delle imprese insiste: in un momento di grave crisi come questa la flessibilità - sia in entrata che in uscita - è indispensabile. I sindacati (soprattutto la Cgil, mentre Cisle e Uil sono più possibiliste) ribattono: dare mano libera ai licenziamenti proprio adesso che il lavoro manca sarebbe una catastrofe.



In realtà da quel lontano 1970 qualcosa è già cambiato. L’articolo 18 è stato rivisitato (riducendone il campo di applicazione) dalla riforma a firma Monti-Fornero del 2012. Il diritto a essere reintegrati sul posto di lavoro vale ora solo per i licenziamenti discriminatori, fondati su accuse false o ragioni manifestamente insussistenti. In tutte le altre situazioni scatta solo un indennizzo economico. Resta però ancoro ampio il margine di discrezionalità del giudice.



LA REINTEGRA

Ora la partita si riapre. I centristi della maggioranza (Ncd, Sc, Udc, Pi, Svp) appoggiano tutti l’emendamento del senatore giuslavorista Pietro Ichino che, all’interno dell’adozione di un testo unico semplificato, prevede «un contratto di lavoro a tempo indeterminato a protezione crescente». In caso di licenziamento (salvo quello discriminatorio) al lavoratore spetterebbe solo un’indennità proporzionale all’anzianità aziendale (un mese per ogni anno è l’idea di Ichino, ma l’emendamento non entra nei dettagli). Varrebbe per tutte le nuove assunzioni, giovani e meno giovani. Il Pd invece chiede un contratto «a tutele crescenti» solo per tre anni, dopo di che si tornerebbe all’attuale situazione.

Ma quanto vale l’articolo 18? Ieri il premier ha fornito i primi dati del monitoraggio che il ministero si era impegnato a fare: «I casi che vengono risolti sulla base dell’articolo 18 sono circa 40mila e per l’80% finiscono con un accordo. Dei restanti 8.000, solo 3.000 circa vedono il lavoratore perdere».



Quindi - ha tagliato corto Renzi - «noi stiamo discutendo di un tema che riguarda 3.000 persone l'anno in un paese che ha 60 milioni di abitanti». In effetti c’è da ricordare che l’articolo 18 vale solo per i lavoratori di aziende con più di 15 dipendenti. Ovvero, secondo una recente stima della Cgia di Mestre, il 2,4% del totale delle imprese italiane e il 57,6% dei lavoratori dipendenti occupati nel settore privato dell'industria e dei servizi, circa 6,5 milioni su oltre 11 milioni di operai e impiegati.
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