Effetto Terra dei Fuochi, crolla l'export di mozzarella di bufala: -57 milioni

Mozzarella di bufala campana
Mozzarella di bufala campana
di Luciano Pignataro
Martedì 27 Gennaio 2015, 13:08 - Ultimo agg. 13:09
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Oggi sappiamo quanto è costato ai produttori di bufala il danno di immagine della Terra dei Fuochi: 56,6 milioni di euro nei primi nove mesi del 2014. Questa è la perdita secca rispetto ai 174 milioni fatturati con l’export nel 2013. Una vera e propria emorragia che non accenna a diminuire, visto che in termini percentuali il terzo trimestre segna -44,7% rispetto alla media del -38,4% tra gennaio e settembre. L’amara verità è registrata nel consueto rapporto elaborato dalla direzione Studi e Ricerche del Banco di Napoli sull’andamento dei principali distretti economici del Mezzogiorno.



Una tendenza che si inserisce in un macro dato comunque negativo, ossia il-1,5% di tutto il Sud rispetto al +2,2% dell’Italia e in cui la Campania con il -0,9% è penalizzata proprio da questo crollo del comparto bufalino: quasi 57 milioni in tutto, contati però solo sull’export, a cui vanno aggiunti comunque i numeri negativi del mercato nazionale.



Ma il dato più sconfortante non è questo: perché gli altri due grandi distretti campani monitorati da questo studio, quelle delle conserve e quello della pasta/caffé sono tutto sommato stabili, il che vuol dire che le immagini dei ritrovamenti dei rifiuti tossici nelle aree del Casertano e del Napoletano hanno colpito quasi esclusivamente la mozzarella di bufala campana.



Insomma, il latticino più amato dagli italiani, una delle dieci dop più importanti d’Italia, viene irrimediabilmente identificata con le difficoltà ambientali del territorio. A nulla sono serviti i responsi scientifici di chi per dovere pubblico deve assicurare la salubrità del cibo in commercio, Asl e Istituto Zooprofilattico di Portici. Nulla ha prodotto neanche il coup de theatre del Consorzio di Tutela che fece analizzare dei campioni raccolti dalle associazioni dei consumatori senza preavviso per consegnarli direttamente ai laboratori tedeschi.



Il punto vero è che l’identificazione della mozzarella con il disastro della Terra dei Fuochi esercita un fascino irresistibile presso alcuni media, una deriva verso la quale sembra proprio non ci sia più nulla da opporre.



Lo ha raccontato in una intervista qualche mese fa il commissario dell’Istituto di Portici Antonio Limone. Nel corso della preparazione di una puntata sulla mozzarella di Servizio Pubblico gli fu chiesto di analizzare dei campioni di prodotto prelevati nei pressi delle aree a rischio. Quando emersero dati fossero perfettamente conformi ai limiti di legge si decise di non mandare in onda nulla.



L’aspetto più interessante è forse cercare di capire da cosa trae alimento questo sentire comune così negativo, al punto da incidere così pesantemente sulle vendite. Come sempre accade per il Sud, i focolai mediatici negativi sono autoctoni e nascono dall’eterna dialettica tra produttori di latte e trasformatori con i primi che accusano i secondi di barare e di usare latte non previsto dal disciplinare.



Oppure anche dal contrasto di visione tra piccoli produttori artigianali e quelli più grandi, contrasto che nella mozzarella come in altro settore, vede demonizzati i grandi, sempre «colpevoli« di ogni nefandezza possibile e immaginabile. Solo la pasta al momento ne è stata esente, ma ci arriveremo presto attraverso tutti luoghi comuni che circolano sul grano.



C’è poi anche il ripetere luoghi comuni di alcuni media che non hanno alcun senso, come la questione della brucellosi che da quasi dieci anni in Campania è sotto gli standard italiani ed europei e che nonostante ciò viene identificato come un problema tipicamente regionale. E a nulla vale l’osservazione che il latte per mozzarella non presenta alcun rischio anche se prodotto da un animale malato perché il processo di pastorizzazione indispensabile per produrla uccide ogni batterio.

La mozzarella, insomma, è la metafora della comunicazione all’epoca della globalizzazione, dove se si ammala un pollo in Vietnam in giorno dopo la signora Rossi evita di comprarlo da proprio macellaio di fiducia. E questa incapacità di fare squadra tra produttori e allevatori, grandi e piccoli, oggi presenta un conto decisamente salato, quasi 57 milioni di euro in meno di export. Una cifra che consentirebbe di stare per un anno intero sui principali network mondiali.

Non è difficile prevedere dunque un declino del comparto che fiduciosamente si affida solo alla memoria corta dell’era di internet durante la quale il sapere si ricostruisce ogni giorno grazie agli algoritmi di Google e non attraverso una autorità scientifica e istituzionale riconosciuta. Una memoria che però viene rinfrescata continuamente da inchieste giudiarie che partono con i fuochi di artificio ma che spesso poi terminano con assoluzioni e richieste di archiviazioni o da servizi giornalistici non troppo preoccupati di fornire il quadro esatto del settore.

In questo Medioevo mediatico, insomma, la certezza è data ormai o da piccoli produttori o da grandi marchi delle multinazionali. E a fare i soldi da questa situazione, potete stare certi, sono solamente i secondi.

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