Vinitaly 2015, le mille tribù del popolo del vino

La sommelier irpina Serena de Vita
La sommelier irpina Serena de Vita
di Luciano Pignataro
Martedì 24 Marzo 2015, 20:57 - Ultimo agg. 21:08
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Il consumo di vino non è mai stato così basso in Italia, appena 35 litri nel 2014 contro i 111 degli anni ’70, eppure il Vinitaly cresce edizione dopo edizione, una passerella ormai irrinunciabile per premier, ministri, assessori e governatori regionali. È una metafora di un Paese che sta mutando le abitudini su cui ha costruito i propri luoghi comuni nel corso degli ultimi secoli. Ormai quasi un italiano su due non tocca neanche una goccia di vino da gennaio a dicembre mentre la quantità di export, 5,4 miliardi, ha superato il fatturato del mercato interno, poco più di quattro miliardi. Insomma, il più grande paese produttore ed esportatore del mondo non si riconosce più nel suo bicchiere simbolo mentre i consumi crescono in Usa e in Asia. Questo cambio di passo lo si avverte girando nella cittadella di VeronaFiere, praticamente raddoppiata rispetto a soli dieci anni fa, dove basta parlare una lingua straniera per essere coccolati e inseguiti da pr e produttori. Sbaragliata la concorrenza del Salone del Vino a Torino e dell’abortito tentativo di creare una manifestazione alternativa a Milano, ormai Verona se la deve battere con il Prowein a Dusseldorf e Bordeaux, ha affidato a Wine Spectator la selezione delle cento aziende più importanti a cui ha dedicato una vetrina speciale, Opera Wine, che si svolge la sera prima dell’apertura ufficiale del Vinitaly.



E dalle timide spedizioni in Usa, India e Cina si è passati ad una strategia aggressiva sui mercati internazionali puntando su Stevie Kim, un minuta donna di acciaio, che è diventata il volto del vino italiano sui principali mercati mondiali.

Eppure nonostante questo cambiamento fulmineo, il popolo del Vinitaly celebra se stesso come ogni anno negli immensi spazi della Fiera, una Italia in miniatura dove ciascun regione cerca di rappresentarsi al meglio e dove il vino diventa la metafora del nostro paese. De Gaulle disse che era impossibile governare la Francia perché in un paese dove si producono duecento formaggi ciascuno la pensa alla propria maniera. Questo è ancor più vero per il Belpaese dove si coltivano quasi mille vitigni autoctoni.



La verità è che non esiste più, come negli anni ’90, una sola gerarchia enologica riconosciuta, ma tante tribù che non dialogano neanche tra loro. I produttori di vini naturali si ritrovano fuori Vinitaly in una controfiera nella migliore tradizione italiana sempre divisa tra guelfi e ghibellini. Nello stesso spazio dell’Ente Fiera, costantemente assediato da un serpente immobile di auto, si ritrovano i vini Bio e i produttori della Fivi, la Federazione Italiana dei Vignaioli indipendenti.



Al Palazzo Cangrande invece si celebra la gerarchia classica degli anni ’90, con gli Antinori, in copertina nell’ultimo numero di Wine Spectator, i Frescobaldi, e poi Gaja, Caprai, Zonin, Donnafugata, Santa Margherita, Ornellaia, Cavallotto, Mastroberardino, Feudi, Lungarotti e tutti i marchi che hanno cavalcato l’onda dei magnifici anni ’90 tenendo duro nel decennio successivo, quello della crisi del mercato americano, e che adesso hanno ripreso a guidare l’export.



Un mondo variegato, appunto, dai Lunelli e Cà del Bosco al piccolo produttore di Prosecco Colfondo non filtrato, da Folonari al contadino dei Sud che imbottiglia da un anno per difendersi dal calo del prezzo delle uve. Mille storie si incrociano. Ed è dunque un po’ la metafora dell’Italia che riscopre il valore della terra, con giovani laureati che riprendono l’appezzamento dei nonni e producono, o di manager che spengono il computer e iniziano a zappare creando vini di successo come il campano Giovanni Ascione, alias Nanni Copé. O i giovani fratelli Francesco e Vincenzo Scilanga che lasciano Milano per tornare alle loro viti ad alberello di Cirò Marina. Tante storie che si incrociano in questi quattro giorni: quella di Arianna Occhipinti che passa dai blog al New York Times e diventa una star in Usa con il Frappato.



Un dato è certo: nella cittadella del Vinitaly si vive un’altra Italia. Ottimista, che investe nella ricerca, nel packaging, nella comunicazione, non assistita. Un settore nel quale c’è spazio per i giovani e per le donne, aggressivo sui mercati internazionali, capace di trasmettere sempre messaggi positivi. Ed è forse questo atteggiamento che può spiegare la dicotomia dalla quale siamo partiti, ossia dal calo dei consumi che fa da contraltare al moltiplicarsi delle manifestazioni sul vino dalla Val d’Aosta alla Sicilia.



A differenza dell’industria, dove la strategia è stata quella di tagliare i costi anziché investire sulla qualità, in viticoltura la reazione alla crisi è stata esattamente opposta. Prodotti sempre migliori e con valore aggiunto.



Adesso la competizione è fra territori. C’è la locomotiva Veneto che da sola copre il 34 per cento dell’export italiano, seguita da Piemonte e Toscana. Ma ci sono anche brend territoriali del Sud che stanno crescendo. Almeno cinque, secondo la classifica del sito specializzato Winenews che ha rielaborato dati della Camera di Commercio di Monza, stanno nei primi venti: Montepulciano d’Abruzzo, Marsala, Primitivo di Manduria, Falanghina del Sannio e Cirò.



E proprio Benevento è stata la sorpresa di questa edizione del Vinitaly con l’abbinamento alla pizza e la scelta di Gino Sorbillo come testimonial. Una strategia di promozione che ha visto alleati Camera di Commercio e Consorzio Vini Sannio, il più grande del Sud e l’unico riconosciuto dal ministero in Campania, in modo semplice ed efficace, sino alla serata veronese da Renato Bosco, il profeta della pizza gourmet insieme con Simone Padoan in Veneto.

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