Napoli, immigrato morto da eroe. Il sindaco: «Vogliamo seppellirlo qui»

Napoli, immigrato morto da eroe. Il sindaco: «Vogliamo seppellirlo qui»
di ​Paolo Barbuto
Lunedì 31 Agosto 2015, 11:04 - Ultimo agg. 12:20
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«Anatolij era un uomo perbene che ha avuto il coraggio di opporsi alla prepotenza. Morto a 38 anni per mano assassina. Gli siamo grati per l’esempio estremo che ha dato a tutti noi». L’ingresso del supermercato è coperto da una grande corona di fiori, sulla saracinesca abbassata il cartello di lutto e di rabbia. Davanti, sul marciapiede, mazzi di fiori sistemati con ordine e subito disidratati dal sole impietoso, i bigliettini sono di persone che conoscevano bene quell’uomo, come tutti in queste strade: «Serva il tuo sacrificio a rendere migliori tutti noi. Riposa in pace, Eroe», ha scritto una mano un po’ tremante.



«Il nostro eroe. Riposa in pace» la frase è in stampatello e le rose rosse sono avvolte in un ricciolo di rete viola, il colore del lutto. Altri fiori, tanti, sono anonimi. La casa di Anatolij si trova giusto alle spalle del luogo dove l’uomo ha trovato la morte. Dietro il cancello di un bel parco, c’è una porta sul ballatoio tinteggiato di fresco color crema: all’interno c’è Nadyia, la vedova, che riesce solo a ripetere meccanicamente il nome del suo uomo ed è protetta da uno stuolo di carabinieri. Quando è arrivato in paese, otto anni fa, Anatolij aveva tanti capelli biondi, una bella moglie al suo fianco e una piccina di sette anni con gli occhi grandi e impauriti. Adesso quella chioma bionda se n’era andata ma il sorriso gentile e lo sguardo da persona pulita erano gli stessi del giorno in cui era arrivato.



Il lavoro da operaio edile gli piaceva, anche dare una mano agli altri gli piaceva. Raccontano adesso tra le lacrime i vicini che lui non si faceva pregare, se c’era qualcosa in casa che aveva bisogno di manutenzione lui ci provava e se ti azzardavi a dargli dei soldi ti guardava storto: «Andiamo a prenderci un caffe? Offro Io». Dentro al parco oggi ci sono dolore e sconforto, pochi hanno voglia di parlare, tutti ricordano quella famiglia che usciva felice, di domenica: «Il papà spesso teneva per mano entrambe le figlie». Perché negli otto anni trascorsi in Italia era arrivata anche un’altra bimba che oggi ha un anno e mezzo, e l’altro giorno ha guardato due assassini che le uccidevano il papà. L’eroe che ha perduto la vita per fermare due rapinatori, nei racconti dei vicini e degli amici, diventa una persona normale con una vita normale, senza eccessi.



Solo famiglia e lavoro, nessuna uscita serale con gli amici, nemmeno le partite di calcetto. Sveglia all’alba per Anatolij, ché i cantieri iniziano a muoversi presto. Ad avviare la grande a scuola e la piccola al nido ci pensava Nadyia che subito dopo andava a fare la colf. L’ultimo impiego era comodo, proprio a Castello di Cisterna, in modo da conciliare il lavoro e la gestione della casa. Perfettamente integrata nella comunità locale (tanta classe operaia e poca borghesia a Castello), sulla famiglia Korol non c’è nemmeno una macchia. Nessuno ha mai sentito marito o moglie alzare la voce, tutti raccontano dei sorrisi grandi e gentili che la coppia era capace di offrire in ogni momento: una maniera di affrontare la vita che era stata trasmessa anche alla figlia maggiore e che la piccina stava imparando.



Ieri mattina il sindaco Clemente Sorrentino ha deciso che i funerali di Anatolij saranno a spese del Comune e che in quel giorno sarà proclamato il lutto cittadino: «È il minimo che possiamo fare per rendere omaggio a una persona della nostra comunità che ha compiuto un gesto coraggioso ed eroico. Vorremmo anche seppellirlo qui».



Poi è andato a casa della famiglia Korol per abbracciare la vedova e le bimbe. Ha anche deciso di accompagnare la donna all’obitorio ma la visita alla salma è stata vietata e, sulla strada del ritorno Nadyia ha avuto un malore. È stato necessario correre al pronto soccorso dove ha ricevuto le cure necessarie per riuscire a tornare a casa e affrontare un dolore che nessuno di noi potrà mai immaginare.



La famiglia vorrebbe che Anatolij fosse sepolto nella sua Ucraina anche se proprio il sindaco di Castello di Cisterna ha chiesto a nome di tutti i cittadini che quell’uomo possa riposare nel cimitero del paese: «Per noi sarebbe un onore poter ospitare le spoglie di quell’uomo coraggioso. Vorremmo che rimanesse qui, nel luogo dove ha compiuto il suo gesto eroico, purtroppo l’ultimo». Anche il presidente della Regione Campania, Vincenzo De Luca, ha espresso il suo cordoglio e ha promesso interventi in favore della famiglia. «Il suo coraggioso gesto lo rende un eroe civile. Egli non ha esitato a mettere a repentaglio la propria vita per prestare soccorso al personale sotto la minaccia delle armi. I vili criminali ne hanno stroncato la giovane esistenza ma non il coraggio e la dignità di chi come lui onestamente fa ogni giorno il proprio dovere nel rispetto degli altri e della legge.



Quella di Anatolij Korol è la testimonianza suprema di un martire della giustizia, esemplare per tutti noi. Attiveremo, d’intesa con le istituzioni competenti, le forme di aiuto concreto per i familiari, confidando al tempo stesso nell’operato delle forze dell’ordine affinché i colpevoli di questo crimine efferato siano assicurati alla giustizia ed adeguatamente puniti». Intanto il paese si interroga sulla vicenda, ieri mattina Don Francesco Capasso, il parroco della chiesa di San Nicola ha ricordato Anatolij nella sua omelia, lo ha citato come esempio da seguire per imprimere il senso della famiglia, della legalità, della giustizia. A pochi passi dalla chiesa due carabinieri accaldati presidiano il supermercato della tragedia che fino a poche ore prima era ricoperto dalle divise e dal dolore. Ora non c’è più nulla da vedere né da repertare e i due militari stanno lì ad osservare il lento pellegrinaggio di Castello di Cisterna. Passano a piedi, in auto, in bici, si fermano davanti al supermercato come si fa davanti alle chiese nel giorno dei «sepolcri». Alcuni fanno il segno della croce, altri biascicano qualche parola, molti scattano una foto con il cellulare. Ci sono tanti bimbi dietro i finestrini, con i nasini schiacciati sul vetro guardano senza capire.



Arriva a piedi, e si ferma a lungo Domenico, 28 anni, nato e cresciuto in questa strada, via Selva, alla quale dirà addio fra una settimana. Va in Belgio a cercare fortuna ma non sputa veleno sul suo paese, anzi «Qui si vive bene. Fatti del genere non ne sono mai avvenuti, è per questo che siamo schifati». Usa proprio questa parola «schifati», poi si scusa perché non riesce a cercarne un’altra migliore anche se vorrebbe, per rispetto alla morte dell’eroe straniero: «Macché straniero, quell’uomo era inserito nella comunità, faceva parte di Castello come me e come tutti quelli che stanno in questa strada». Domenico è triste ma tenace: «Non scriva che Castello di cisterna è un posto di delinquenti, non ce lo meritiamo». Per raggiungere il luogo dell’omicidio entri nel paese prendendolo alle spalle. Sulla destra il cimitero che un tempo era lontano dal centro e oggi sta praticamente in mezzo alle case, un passo più avanti lo stadio San Nicola sul quale affaccia un assurdo palazzone moderno di forma irregolare con due strane torri circolari piantate nel mezzo. Quel palazzo è uno spartiacque fra il presente e il passato; segna l’inizio della nuova èra, quella del dopoterremoto, della legge 219 che ha portato cemento e sfollati.



Gli anziani dicono che proprio con l’arrivo di queste persone sono iniziati i problemi; i giovani spiegano che quegli insediamenti sono ormai talmente antichi che le persone ormai fanno parte di questa terra. La porzione antica di via Selva, quella abitata da sempre dalla gente di Castello, inizia subito dopo lo strano edificio, proprio nel punto in cui un divieto d’accesso di dimensioni esagerate impone alle auto di cambiare strada. L’uomo che ti viene incontro spiega di aver superato da un lustro la settantina, dice di essere la memoria storica di Cisterna: «Quarant’anni fa qui si viveva in modo semplice e pulito. Poi sono arrivati loro (gli sfollati n.d.r.) e sono iniziati i problemi».



Lui è l’unico che insiste sul punto, tutti gli altri stemperano. Passa una vecchia punto sgangherata con un uomo e due donne, si fermano e mormorano qualcosa a metà fra una preghiera per il morto e una bestemmia per l’assassino: «Siamo di Napoli, del Mercato. Ma qui ci siamo trovati come a casa. Quello che è successo è sconvolgente, mai vista una cosa del genere qui in 35 anni». Ogni tanto si forma una crocchia. Il capannello tace, poi iniziano ricordi, discussioni, ipotesi: «Dicono che per fuggire, quei bastardi si sono infilati nel vicoletto che sta qua appresso. Solo chi conosce il paese può muoversi così bene in mezzo a queste stradine». E il racconto svela anche un drammatico retroscena. Il «vicolo appresso» è quello che porta direttamente su via Gramsci, sotto casa dell’uomo assassinato. Significherebbe che quei delinquenti, dopo aver ucciso Anatolij, per ironia della sorte sono fuggiti passando proprio davanti al suo portone. Le ipotesi si sovrappongono. Il dolore resta intatto, quasi palpabile, fisico. Una donna si asciuga gli occhi col fazzoletto di stoffa, non con quegli orribili kleenex che si sciolgono assieme alle lacrime: «Ma chi glielo ha fatto fare?», dice tirando su col naso.



È un concetto che esprimono in tanti, quello che accende più discussioni. I giovani sono tenaci: «Se tutti facessimo così la malavita sarebbe debellata. Invece teniamo tutti la testa bassa sperando di non vedere, fingendo che vada tutto bene. Anatolij deve essere il simbolo della nostra riscossa». I due carabinieri ora sono nella traversa di fronte al supermercato per cercare un po’ d’ombra. A turno sfilano il copricapo per asciugare il sudore che gronda sulla fronte e inzuppa le camice. Cercano di essere «invisibili» perché oggi non c’è nulla da presidiare, c’è solo il dolore da guardare con rispetto e compassione. Un’auto si ferma in doppia fila, scende una donna con la divisa del supermercato, una polo bianca con il simbolo «SP» ricamato in petto, sulla sinistra. Parla a voce alta, ce l’ha un po’ con tutti. Non lavora in questo supermercato ma in un altra struttura della piccola ma potente catena locale del vesuviano: «Il nostro titolare ci dice sempre ”se arriva un rapinatore dategli ciò che vuole e non fate nulla che possa mettervi in pericolo”. Noi purtroppo siamo abituate, di rapine ne abbiamo subite tantissime. Sappiamo che basta non farli arrabbiare e se ne vanno così come sono venuti».



La donna ha appena finito il suo turno alla cassa di San Vitaliano ma ha deciso di passare qui per fermarsi davanti a quei fiori: «È un eroe, ma perché ha dovuto farlo? La colpa è dello Stato che non ci protegge, di carabinieri e polizia che lasciano i delinquenti liberi di fare ciò che vogliono», la voce si alza forte. I due militari guardano dritto, non hanno sentito o almeno così sembra. Ma anche se avessero sentito cosa avrebbero potuto fare? «Sapete cos’è - si sfoga la donna - che non c’è più differenza fra paese e città, fra comunità piccole e metropoli spersonalizzanti: la violenza ti raggiunge dappertutto. Anche a Castello di Cisterna dove non era mai successo niente». Quasi nello stesso momento, a venti metri in linea d’aria, una donna sta dicendo la stessa cosa sotto casa della famiglia Korol. Arriva un’auto con una famiglia che rientra dalle vacanze, tanti bagagli e tanti sorrisi: «Ma che c’è? Cosa è successo?». In un attimo i sorrisi diventano lacrime: hanno ucciso Anatolij, l’amico di tutti.