Napoli. «Cattiveria e freddezza, l'arte di restare vivi a colpi di sciabola»

Napoli. «Cattiveria e freddezza, l'arte di restare vivi a colpi di sciabola»
di Maria Chiara Aulisio
Sabato 29 Agosto 2015, 15:36 - Ultimo agg. 16:39
5 Minuti di Lettura






Aveva dieci anni, Ferdinando (Dino) Meglio, quando prese in mano la sciabola. In realtà avrebbe scelto volentieri un altro sport, i tuffi per esempio, ma il centro Coni era più vicino a casa e sua madre privilegiò decisamente la logistica iscrivendolo al corso di scherma al Maschio Angioino. Una, due, tre, dieci, venti lezioni... Niente da fare, Dino era un disastro sia durante gli allenamenti che in gara riuscendo a piazzarsi quasi sempre tra gli ultimi. Rassegnato lui, rassegnata la mamma, dopo qualche mese di inutili tentativi, quello che di lì a qualche anno sarebbe diventato uno dei migliori schermidori del mondo, abbandonò la spada per manifesta incapacità.



Possibile?

«Mollai».



Poi però ha vinto le Olimpiadi.

«Confermo».



Allora tanto negato non era?

«Il mio problema fu un altro».



Quale?

«Il maestro».



E perché?

«Troppo anziano. Mi bloccava in posizioni che non sopportavo, sono sempre stato incapace di reggere discipline rigorose e soprattutto non condivise».



Niente più scherma, dunque?

«Ripresi dopo circa un anno».



Come mai?

«Incontrai un amico, mi raccontò di essere arrivato quarto a un campionato regionale, questa cosa mi rinfocolò e decisi di provare ancora».



Così ha cominciato a vincere.

«Macché, ultimo fisso nelle gare. Sei partecipanti? Mi piazzavo sesto. Dodici? Dodicesimo».



Allora il problema non era il maestro?

«Invece sì. La scena cambiò quando incontrai quello giusto».



Chi?

«Vittorio Bassetti, personaggio improbabile, giocatore, ex allibratore del cinodromo, un tipo stranissimo, cominciò a fare il maestro quasi senza conoscere la scherma a 30 anni».



Addirittura?

«Uomo intelligentissimo, riuscii a creare una scuola straordinaria. Gli devo molto anche da tecnico: mi ha insegnato il giusto modo di affrontare lo sport».



Qual è?

«Costanza e determinazione. Bisogna credere sempre in quello che si fa, alla fine i risultati arrivano».



Lei ci credeva?

«Con Bassetti sì. Provavo e riprovavo senza scoraggiarmi. Avevo 15 anni, partecipai a un campionato di categoria italiano».



Come andò?

«Vinsi clamorosamente. Arbitrava la finale il commissario tecnico della nazionale: dopo due giorni arrivò a casa un telegramma con il quale mi convocavano all’allenamento collegiale della nazionale assoluta. Non riuscivo a crederci».



Da allora è cominciata la scalata fino alle Olimpiadi.

«Quattro da atleta e quattro da tecnico, Londra 2012 inclusa».



Medaglia d’oro a Los Angeles, argento a Mosca e bronzo a Seul. Solo una parte del suo ricco palmares.

«Ho vinto tanto».



1984: oro a Los Angeles, forse l’emozione più grande.

«Sembrerà anche strano ma vincere le Olimpiadi per me è stato abbastanza deludente».



Davvero?

«Come spesso accade quando ce l’hai fatta ti domandi: “È tutto qua?”».



A lei è accaduto così?

«L’oro a Los Angeles è stato una delusione, ha rappresentato più una spinta a non fermarmi che altro. Dopo la conferenza stampa ricordo che me ne tornai in albergo, nemmeno andai a festeggiare con gli altri».



Almeno il maestro Bassetti sarà stato soddisfatto?

«Certo. Ma dopo poco presi ad allenarmi praticamente da solo. Anzi».



Anzi che cosa?

«Cominciai io ad allenare gli altri».



Quanti anni aveva?

«Ventidue».



Chi è stato il suo primo allievo?

«Gigi Tarantino».



Il campione napoletano?

«Proprio lui: quattro medaglie olimpiche, quattordici volte sul podio in un campionato del mondo, tredici medaglie europee, due coppe del mondo e quattordici titoli italiani».



Non si può dire che Dino Meglio non sia stato un buon maestro.

«Strane circostanze».



In che senso?

«Cercavo casa, volevo andare a vivere per conto mio. A una gara incontrai il vice presidente del Cus, la mia società, sapevo che si occupava di ristrutturazioni. Gli chiesi se poteva darmi una mano a cercare una casa».



La aiutò?

«Mi disse che per combinazione aveva un piccolo appartamento libero in via Chiaia. Quando gli chiesi quanto avrei dovuto pagare mi rispose: “Niente, allena mio figlio e stiamo pari”».



«Mio figlio» era Gigi Tarantino?

«Aveva 11 anni, cominciava a muovere i primi passi nel mondo della scherma».



Quando ha capito che aveva di fronte un talento?

«Quasi subito».



Come ha fatto?

«Non è difficile capire chi farà strada: sono incazzati, ti urlano in faccia, non hanno paura, vogliono vincere a tutti i costi. Ho visto sfilare pacchi di talenti, in tanti sono rimasti al palo. La tecnica la puoi sempre raffinare, quando manca la grinta non c’è niente da fare. Tarantino aveva anche una qualità in più»



Quale?

«Imparava dagli errori. Sbagliava una volta e basta. Silenzioso, molto attento, grande capacità di concentrazione».



Il suo allievo preferito?

«Ma no. Però è vero che i nostri destini si sono incrociati più volte. L’ultima vittoria della mia carriera è stata con lui».



L’allievo contro il maestro?

«Esatto. Erano i quarti di finale di una gara di Coppa del mondo a Madrid. Ero molto preoccupato, temevo che si sarebbe fatto condizionare».



Invece?

«Salgo in pedana, mi metto in guardia, prima stoccata, Gigi urla e mi tira una palata pazzesca».



E meno male che si era fatto condizionare...

«Se mai avessi avuto qualche dubbio in quella circostanza capii che era un vero campione».



Però poi ha vinto lei?

«A quel punto cominciai a fare sul serio anche io: lo divorai ma gli passai il testimone».



Degno erede, insomma.

«Non è il solo fuoriclasse che ho allevato».



Chi altro?

«Raffaello Caserta: con lui e Tarantino, quando ero commissario tecnico della Nazionale, vincemmo il bronzo ad Atlanta, l’anno dopo anche gli Europei. Bravissimo pure Giampiero Pastore, campione europeo, attuale vice presidente federale. Adesso sono tutti maestri».



E le donne?

«Straordinarie».



Quante ne ha allenate?

«Tante. E mi sono sempre trovato bene. Sono più educabili rispetto agli uomini, la comunicazione con loro è più piana, noi maschi siamo sempre troppo “petto a petto”».



Le migliori?

«Gioia Marzocca, Rosanna Pagano, entrambe campionesse del mondo, e Francesca Boscarelli, molto brava anche lei, campionessa europea, a maggio ha vinto l’ultima gara per la Coppa del mondo a Rio. Con lei mi sono rimesso in discussione».



Perché?

«Ho lasciato la sciabola e ho preso la spada».



Che differenza c’è?

«Quella che può esserci tra i 100 metri e i 1500: la sciabola è immediata, più brusca, toccate rapide. La spada invece è più lenta, compassata, strategia e tecnica contano molto di più».



Sciabola o spada. Qual è il carattere giusto per diventare schermidore?

«Aggressivo innanzitutto. Dico sempre che la scherma è una boxe che non fa male. Uno stato mentale: sei di fronte al nemico e devi trovare la soluzione per non farti “ammazzare”».



Come si fa?

«Imparando a gestire il disagio e rimanendo sempre presenti a se stessi: le stoccate si avvertono, è una sensazione fisica molto sgradevole che va controllata prima con la testa e poi con la spada. Lo spiegavo sempre a mia figlia».



Campionessa anche lei?

«Grande tecnica, talentuosa, avrebbe potuto fare un ottimo lavoro».



Invece?

«Ha un suo modo di affrontare le cose, quella sollecitazione sportiva non era per lei. Le dicevo “Emilia, devi essere cattiva”. E lei mi rispondeva: “Papi, io non sono cattiva”. La conoscevano tutti».



Perché?

«Era l’unica atleta che sotto la maschera aveva sempre il sorriso. No, la scherma decisamente non faceva per lei. Ma va bene così».

© RIPRODUZIONE RISERVATA