Mamma in lacrime: ora due rischiano l’adozione

Mamma in lacrime: ora due rischiano l’adozione
di Pietro Treccagnoli
Domenica 13 Dicembre 2015, 10:31
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Bisogna arrampicarsi su per scala che sembra condurre all’inferno più che al paradiso, al quarto piano di via Villari, sopra alla Stella, nome irridente per un quartiere di sofferenze e di precarietà. Qui abitano Carmela S., 36 anni, il marito Pasquale, 45 anni, e l’unico figlio che gli assistenti sociali e una vita di stenti e di fatica precaria gli hanno lasciato, un batuffolo di appena 34 giorni che dorme nella culla, ignaro del dramma che da due mesi e mezzo attanaglia il monolocale.

Pochi metri quadrati, due grandi armadi-letto, un televisore, un tavolino che non basta per quattro persone, un corridoio che fa da cucina, un bagno. Unici sfoghi: la finestra aperta sui tetti della Sanità, in fondo il verde di Capodimonte, e un piccolo pianerottolo che dà sul cupo cavedio.

Qui dentro Carmela e Pasquale hanno vissuto fino al 5 ottobre con i propri figli: allora erano nove, sarebbero diventanti dieci, dai 17 anni a un mese e poco più, cinque maschi e cinque femmine. Ora tre (tutti maschi, i più grandi: 17, 15 e 14 anni) sono in una comunità. Gli altri sei (da 12 a 2 anni) in due case famiglia. E c’è il rischio molto forte che gli ultimi due siano tolti definitivamente alla famiglia, per finire adottati. Ora Carmela se li guarda nelle immagini racchiuse nello smartphone di una vicina, a mo’ di album fotografico, e ogni volta che li vede non riesce a trattenere le lacrime. Al netto di qualsiasi decisione dei giudici del Tribunale dei Minori che dal 14 gennaio cominceranno a esaminare il suo caso, la storia di una mamma è tutta in queste lacrime e nel desiderio ossessivo di riavere accanto a sé le creature sue.

Signora, ma come farete a vivere tutti in uno spazio così piccolo?

«Ce la faremo. Ce l’abbiamo sempre fatta. Anche se da tempo abbiamo chiesto al Comune una casa più grande, ma nessuno ci ha mai dato ascolto. Abbiamo scritto a tutti. Abbiamo mandato pure un fax al cardinale, nessuno ci ha mai risposto».

Come fa a mantenere i suoi figli?

«Fino a che la gravidanza dell’ultimo nato me l’ha consentito, andavo due volte a settimane a fare i servizi nelle case. Ora mi occupo del bambino. Mio marito fa il manovale, se trova. Poi fa l’ambulante. Vende quello che capita. Quando ho potuto sono andato assieme a lui. Ora Pasquale è fuori a guadagnarsi la giornata. Ha un bancarella per Natale».

È dura.

«Per questo motivo, tre anni fa abbiamo chiesto che i tre ragazzi più grandi andassero in una comunità».

L’ha chiesto lei? Perché?

«Per farli studiare. Sono maschi, erano grandi. Uno studia all’alberghiero, l’altro ragioneria e il terzo per diventare perito elettronico. Sono in una comunità a Trentola, nell’Aversano. Ma loro non mi danno grandi preoccupazioni».

Li vede?

«Una volta a settimana e qualche volta possono venire anche qua. Potevano, anzi. Perché i due più piccoli sono in punizione, perché quando mi sono stati tolti gli altri sei sono scappati per poter andare a vedere i fratelli».

Dove sono adesso gli altri sei?

«In case-famiglia. Quattro a Orta di Atella e i due più piccoli, di tre e due anni, a piazza del Gesù Nuovo».

Vede anche loro?

«Anche loro li vedo una volta a settimana, per poco tempo. I tre più grandi il sabato. Al Gesù vado il mercoledì. A Orta o il giovedì o il venerdì. Ma per andare e venire, con i mezzi pubblici, impiego quasi una giornata intera. Non rinuncio mai, però, anche per far conoscere a tutti l’ultimo nato, il fratellino più piccolo».

Signora, un monolocale, lavori precari: crescere così dieci figli non è un azzardo?

«I figli sono tutta la mia vita, un dono di Dio».

Quando è precipitata la situazione?

«Lo scorso 20 aprile. Mia figlia che ora ha due anni cadde dalla culla e si ferì alla testa. Volevamo portarla subito in ospedale. Io però mi sentii male. Svenni. Dei vicini fidati si offrirono di portarla al Pronto Soccorso del Loreto Mare con lo scooter. Furono fermati dai carabinieri. E noi siamo stati accusati di abbandono di minore».

E poi?

«Lo scorso 5 ottobre, alle 6 meno un quarto del mattino, hanno bussato alla porta per venirsi a prendere gli altri sei figli. Assistenti sociali, polizia, persino la Squadra omicidi, perché temevano che mi suicidassi. Io suicidarmi? Essì, così le creature mie non le vedevo davvero più».

Che cosa le dicono i suoi figli quando la vedono?

«Piangono perché vogliono tornare a casa. Qualcuno è arrabbiato con me. Non capisce ancora bene, pensa che sono stata io ad averli allontanati. Le più grandi mi scrivono. Ecco, questa è la lettera, piena di cuoricini, che mi ha scritto, una di loro. Mi dice che ci vuole bene e sogna stare con noi a casa. Non mi perdo un giorno di visita. Pure se viene un terremoto e si apre la terra io vado a trovarli dovunque stanno».

Il 14 gennaio c’è la prima udienza per decidere il destino dei ragazzi. Che cosa teme?

«Mi hanno detto che i due più piccoli rischiano di essere dati in adozione. Non me lo devono fare. Non me li possono togliere. Sono figli miei. Le nostre condizioni economiche sono quelle che sono, ma non abbiamo mai fatto nulla di male. Non è giusto».

Qualcuno l’aiuta?

«I vicini e i parenti, per quello che possono.
Una mia sorella che vive a Brescia si è offerta di prendere in affidamento i due bambini più piccoli. Se non riesco a tenerli con me, saperli da mia sorella mi rassicurerebbe. Mica possiamo essere colpevoli solo perché ci arrangiamo, dignitosamente?».
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