Napoli. Gianni Pisani: «Una vita da pittore tra colori, amori e passioni al suono di Amapola»

Napoli. Gianni Pisani: «Una vita da pittore tra colori, amori e passioni al suono di Amapola»
di Maria Chiara Aulisio
Domenica 24 Maggio 2015, 12:54 - Ultimo agg. 16:21
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Il primo quadro, il maestro Pisani, lo dipinse a nove anni. Inverno 1944. Chiuso in bagno. Con la complicità della madre. Al marito la donna raccontava che soffriva di mal di pancia, il povero Gianni, perciò passava ore e ore chiuso in bagno. Tutte scuse, naturalmente. In realtà si trattava dell’unico modo per dare al ragazzino la possibilità di sfogare la sua arte senza che il padre si infuriasse.



Non voleva che dipingesse?

«Andavo male a scuola. Non studiavo, stavo sempre lì a giocare con pennelli, tempere e colori. Era un ingegnere del Genio civile, il mio papà, solo al pensiero che potessi fare il pittore gli veniva l’orticaria. Un giorno mi sequestrò i pennelli»



Addirittura?

«Diceva che la pittura mi distraeva dallo studio, così me li portò via tutti».



E lei?

«Il problema lo risolsi subito. Chiuso in bagno come al solito mi tagliai qualche ciocca di capelli, la intinsi nelle tempere e mi misi a dipingere anche meglio di prima».



Geniale.

«Di necessità, virtù. Amavo troppo la pittura, per nulla ci avrei rinunciato».



Alla fine poi si è arreso, suo padre?

«È stata dura ma ho vinto io. Dopo un paio di anni inutili passati al liceo classico e qualche mese allo scientifico, mio padre capì che forse sarebbe stato meglio iscrivermi all’artistico».



Finalmente.

«La mia vita cambiò. Dopo il liceo, l’Accademia di belle arti e l’incontro con Emilio Notte, uno dei grandi protagonisti della pittura napoletana e italiana che considero a tutti gli effetti il mio grande maestro. Alla sua scuola si sono formati i maggiori esponenti dell’arte napoletana del secondo dopoguerra».



Di chi parla?

«Lucio Del Pezzo, Carmine Di Ruggiero, Mario Persico, Guido Biasi, Carlo Alfano, Bruno Di Bello e la grande Maria Palliggiano».



Maria Palliggiano?

«Una giovane e inquieta artista napoletana che visse l’arte e la pittura coinvolta nell’amore e nella ricerca, che considerò l’essenza stessa dell’arte. Una donna tormentata e infelice che finì la sua vita suicidandosi dopo aver cercato di viverla assecondando passioni e aspirazioni».



Anche lei allieva dell’Accademia di belle arti?

«Certo. Maria è ”la donna con il vestito rosso” ritratta da Emilio Notte, di cui era la moglie. Con lei, alla fine degli anni ’60, abbiamo firmato la Carta di fondazione della Galleria Inesistente».



Una galleria inesistente?

«Sì. La breve ma intensa avventura di una galleria molto sui generis, non legata a uno spazio fisico ma attiva nel tessuto della città con azioni estemporanee e spesso provocatorie. Ne inventavamo di tutti i colori».



Un esempio.

«Il finto ”Risveglio del Vesuvio”, facemmo scalpore. Simulammo un’eruzione incendiando decine di copertoni, il cratere si riempì di fumo, seminammo il panico. Ma non fu l’unica performance stravagante».



Ne racconti un’altra.

«Novembre 1970, prendemmo un aereo a noleggio, caricammo su quindicimila maniche di plastica leggerissime, le ”Maniche di Gianni Pisani”, ottenute da un calco in gesso del mio braccio».



Quindi?

«Sorvolammo le isole del golfo e le buttammo giù. Tutti pensarono che fosse una manifestazione di protesta ideata per lo sciopero dei medici ospedalieri».



Invece era arte.

«Allo stato puro. Devo ammettere che, con la complicità di Lucio Amelio, di opere bizzarre in quegli anni ne ho prodotte parecchie».



C’è dell’altro?

«Hai voglia. Ne ricordo almeno altre due».



Quali?

«”Ha vinto G.P.” Era il 1973. Sfondai una bara con un’ascia per simulare la spettacolare rivincita della vita sulla morte».



La seconda?

«La intitolai ”Tutte le mattine prima di uscire”. Era sempre il ’73: mi riavvolsi un ipotetico cordone ombelicale sulla pancia inscenando il tentativo estremo di rimanere attaccato alla vita».



Ma come le venivano in mente queste strane idee?

«Arte, non strane idee. E io sono un artista».



A proposito di arte. Ma quanti giovani ha allevato alla sua scuola?

«Tanti. Ho insegnato per anni. A Catanzaro, a Brera, all’Accademia di belle arti di Napoli dove sono stato direttore per 14 anni».



Come ricosceva i talenti?

«Bastava guardare un solo quadro per capire se era roba per loro oppure no. Ho conosciuto giovani straordinari che sono diventati artisti di fama ma anche tante mezze cartucce che non sapevano nemmeno copiare».



Copiare?

«Copiare, sì. Lo dicevo sempre: guagliò fate quello che volete, disegnate come vi pare ma non copiate. Altrimenti lo dovete sapé fa’, ata imbroglià bene, non se ne deve accorgere nessuno».



Bei consigli che dava.

«Copiare bene pure è un’arte. Se non hai talento e vuoi pittà pe’ forza non ci sono alternative. Anche se per quanto mi riguarda è una follia. Pensate che in vita mia non ho mai fatto manco un bozzetto».



Nemmeno uno?

«Sapete quanto dura un’emozione?».



Quanto?

«Al massimo mezzo minuto e poi non torna più. Se l’emozione la lasci nel bozzetto che senso ha? Il quadro che farai sarà una bella copia di quello schizzo ma senza alcuna suggestione».



Giusto.

«Non so se sia giusto o meno, diversamente non so fare. Ricordo quando una volta Emilio Notte mi costrinse a realizzare un bozzetto per partecipare a un importante concorso internazionale».



E lei?

«Lo feci dopo. Prima l’opera, poi il bozzetto».



Parliamo dei suoi allievi, quelli che non copiavano però.

«Quasi tutti, non scherziamo. Negli anni ho conosciuto ragazzi bravissimi».



Qualche nome.

«Mario Franco, Renato Brancaccio, Anna Maria Morelli, Valeria Corvino, più avanti Christian Leperino, Lello Lopez, Peppe Caccavale... A proposito, Marianna Troise».



Marianna Troise? Sua moglie?

«Certo. Dove pensate che l’abbia conosciuta?».



In Accademia?

«Era una mia allieva. Abbiamo 14 anni di differenza, stiamo insieme dal 1969».



Le ha mai dedicato un’opera?

«Diverse. Anche se ce n’è una alla quale sono particolarmente affezionato».



Quale?

«”Le bambole”».



Le bambole?


«Facemmo l’amore per la prima volta, le poggiai le mani sui fianchi. Quella scena mi colpì. Le feci il calco delle gambe: tronchi femminili in vetroresina colorata segnati dalle mie mani che li cingevano all’altezza dei fianchi. Un’immagine sensuale e minacciosa allo stesso tempo».



Torniamo agli allievi, maestro.

«La mia forza. Ho passato la vita a insegnare. L’Accademia, sotto la mia gestione, era un luogo di confronto non solo per i miei studenti. Sotto quella grande Magnolia dove anche noi da ragazzi ci intrattenevamo parlando d’arte, ho fatto incontrare centinaia di giovani. Ogni tanto ne incontro qualcuno, l’ultimo solo un paio di giorni fa: mi ha guardato e ha esclamato: maestro! Poi ha cominciato a cantare».



A cantare?

«La mia canzone preferita, quella che si ascoltava in Accademia dalla mattina alla sera. Il custode era ben istruito, appena mi vedeva arrivare metteva su il disco».



Una strofa è d’obbligo.

«Amapola, lindisima amapola. Será siempre mi alma tuya sola...»

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