Non ci sono più i saraghi di una volta: carni dure a causa di una mutazione genetica

Non ci sono più i saraghi di una volta: carni dure a causa di una mutazione genetica
di Luciano Pignataro
Giovedì 27 Agosto 2015, 09:37 - Ultimo agg. 09:39
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Allora è ormai certo: non ci sono più i saraghi di una volta. La denuncia dei pescatori, confortata dalle prime analisi scientifiche lo conferma. La carne è più gommosa, con i metodi tradizionali di cottura diventa quasi immangiabile. Del resto, diciamoci la verità, non ci sono neanche più le mezze stagioni e le vongole veraci (stroncate dalla normativa iperigienista europea), le seppie sono sparite mentre sono sempre più flebili le tracce di mazzoni, sbaraglioni e sciarrani.

Per non parlare di molluschi come le patelle reali, le capesante, le pinne, le lumachine di mare.

E vogliamo parlare dei polli? Provate a prenderne uno, se lo trovate, che abbia camminato e beccato un po' nell'aia (non nell'Aia) e tutti si rifiuteranno di assaggiarlo perché troppo duro. La verità è che gran parte di quello che mangiamo non è più come quello di una volta perché noi non siamo più quelli di una volta. Il rigore della miseria e della fame del Dopoguerra, come la stagionalità delle campagne, è stato sostituito dalla possibilità, e dalla voglia, di avere tutto e subito, l'uva a maggio e le pesche a Natale. Persino la pastiera ormai c'è tutto l'anno! In sintesi, siamo passati dalla carenza all’eccesso di calorie e quasi tutto quello che buttiamo in corpo è imbustato e preparato con prodotti di cui non sappiamo praticamente nulla.

La grande industria ha vinto la sua battaglia negli anni ’60 anche grazie a Carosello ed è ormai diventato istintivo per tutti affidarsi al nome di chi produce e non alla materia prima. Del resto, pensateci bene: ogni anno diminuisce la parte della popolazione svezzata senza omogeneizzati. Questo significa che sin da piccoli la grande industria allena il palato alla morbidezza e alla dolcezza ed è questo il motivo per cui le cose che piacciono ai più anziani sono evitate dai più giovani. Forse è proprio questa la più grande differenza tra gli ultimi cinquant’anni e i precedenti tremila. Il cibo non è altro che lo specchio del nostro cambiamento. Certo, ci sono sacche di resistenza, ma si tratta di fenomeni culturali e colturali ristretti, un rapporto con il cibo antico e più sano che si tramanda in cenacoli di appassionati e fedeli, un po’ come i testi latini si salvarono nelle biblioteche dei monasteri. Napoli può vantare molte eccezioni, tra cui la pizza. Ma anche qui l’attacco è massiccio: nel mirino c’è tutto quello che la caratterizza, dalla farina 00, esempio pregiato di qualità industriale che il mondo ci invidia, alla cottura a legna, al lievito di birra, non meno naturale del tanto decantato lievito madre.

La verità è che il modello di pizza napoletana non si può replicare a livello industriale mentre quello panoso e foccaccioso, oltre che pieno di formaggio, si può produrre in serie sempre uguale, magari con un pizzico di farina integrale usato come specchietto delle allodole.

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