Il libro di Francesco de Core| La Città Corpo: Viaggio nelle tenebre di Napoli aspettando il Grande Evento

Il libro di Francesco de Core| La Città Corpo: Viaggio nelle tenebre di Napoli aspettando il Grande Evento
di Francesco de Core
Domenica 3 Maggio 2015, 10:11 - Ultimo agg. 4 Maggio, 18:42
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La Città Corpo si dilata nell’aria piombata dallo smog, perdendosi tra costa e terra in una sterminata periferia, groviglio di strade che sembrano tratteggiare le vene di un sistema circolatorio devastato da orrende placche di cemento; la Città Corpo è di per sé obesa, inafferrabile, con un cuore che, a volerlo cercare, si fa maledettamente fatica perché nascosto negli anfratti di un tempo sfibrato nel buco nero della Non Storia. Ecco schiudersi Napoli, la Città Corpo, distesa, ferma nella sua ambiguità, che ha già visto quanto c’era da vedere: ha coniugato tutti i verbi per non fissarne alcuno, ha inventato il sole il mare le canzoni per farsi vetrina nel mondo che l’applaude, si nutre di miracoli guizzi rivelazioni che risaltano nel chiarore fuggente del giorno, di ogni giorno passato, di ogni giorno che passerà, ma poi c’è sempre una notte che cala, inesorabile come una mannaia.



Nella Città Corpo tutti mettono parola, ma non bastano l’odio o l’amore per capirla, il frastuono è troppo grande per avvertire la musica che la muove, i silenzi qui non hanno patria. Bene e Male s’inseguono, mescolandosi nella polvere di urla, violenza, risate e canti, per rendere di creta una maschera sola che si fonde alla pelle. Non c’è una bussola buona per orientarsi, si avanza a tentoni nelle budella, le voci si frantumano come cristalli, chi pensa di essere fuori con la risolutezza dei propri giudizi e delle proprie convinzioni è ben dentro il sistema, il meccanismo, la babele, come granello di sabbia in un deserto che mai è uguale a se stesso nella sua immobilità. Napoli, la Città Corpo, risucchia le contraddizioni della modernità per vomitarle in escrescenze che non hanno segno distintivo, non sono più quartieri né città ma bava, non fabbricano storia ma hanno trama pesante, singhiozzi e convulsioni, il futuro è un muro su cui sbattere la testa, e le ferite non paiono rimarginarsi. I pifferai hanno smarrito la magia, la Città Corpo aspetta il prodigio in una rassegnazione che non è muta ma è come se lo fosse.



(...) Non resta che l’attesa del sangue, il sangue inzolfato, nero e coagulato nell’ampolla che si scioglie come presagio nei versi tellurici di Michele Sovente e nelle manifestazioni di giubilo della moltitudine; non resta che l’attesa del tocco del genio, del capopopolo, dell’accadimento straordinario, di un volere sovrannaturale, divino, misterioso in origine ma ben palese negli esiti, un tuono che non contempli la misericordia di un gesto cruciale come quello del Padreterno di Salvatore Di Giacomo, che calò dall’alto il suo lenzuolo per la mappata degli ultimi, dei derelitti, tirandoli via, definitivamente, dalla faccia della terra.

C’è spesso la mano del sole a infervorarne la potenza fragile, ma lo scintillio è uno scarto di natura, la polvere di una illusione che si solidifica sotto la pioggia, una pioggia che piaga la Città Corpo, la rende porosa, vulnerabile, indifesa.



C’è più pioggia che sole a trafiggere lo scheletro della Città Corpo, perché il sole passa e non lascia traccia, riscalda ma non rincuora, nasconde l’abisso; la pioggia invece scava, apre voragini che nessuno colma, e si contano i danni, i morti, i fantasmi che restano, le lacrime che si mescolano all’acqua del cielo, l’ira che scivola nell’acquiescenza. L’altra faccia della bella giornata sta nelle calamità che hanno dilaniato la Città Corpo, quotidiane o epocali, negli uomini che l’hanno illusa e poi fiaccata, nelle tempeste e nelle fiamme, nella terra che trema dalle viscere, nei cambiamenti che non hanno Storia che ha abbassato il suo stesso rango, sbriciolandosi in povere macerie, tramutandosi in oblio.

(...) Non credo che Nicola Pugliese e Gustaw Herling, magari sotto lo sguardo corrucciato e austero di Luigi Compagnone o l’espressione invisibile di Elena Ferrante, si siano mai incontrati. Mi piace pensare che le loro strade, confluite nella Città Corpo, siano rimaste isolate, così strette da essere battute da una persona soltanto.



Un reporter, Pugliese, entrato e uscito dall’ombra di piombo della Città Corpo con un libro unico che lo ha dissanguato, per poi ridurlo a una quiete dissolta nell’opacità, come opaca divenne la sua vista; uno scrittore, Herling, che nel perimetro vasto del Novecento ha conosciuto l’orrore totalitario che però non gli ha precluso una seconda possibilità di vita all’ombra del vulcano, perché se è vero – come egli stesso ha sostenuto – che il solo rimedio per sottrarsi al Male è la solitudine, è qui, oltre le mura del frastuono d’intorno, che Gustaw ha scelto di fermarsi, di morire, di svuotare il bagaglio zavorrato da spettri e afflizioni, di condurre il proprio treno sull’ultimo binario.



Ci sarà pure un motivo, sottile, al fondo della storia della Città Corpo, se proprio qui uomini e geni di arti e secoli diversi e lontani hanno chiuso il loro libro dell’inquietudine nel naufragio della bellezza: Giacomo Leopardi dopo l’ascesa sulla via ripida di una speranza solidale tra la gazzarra dei vicoli e il silenzio del monte di fuoco; Giovanni Battista Pergolesi nell’impeto dello «Stabat Mater» che gli prosciugò ogni moto vitale, consumandolo come un cero assieme al più infame dei mali; José de Ribera nell’espressione ultima di un timbro pittorico che racchiuse nella «Comunione degli apostoli» l’afflato di tutti i maestri declinati nei suoi colori e di tutta l’originalità di cui era ancora capace, dall’altura di San Martino, dove la Città Corpo esprime un profilo che non ha simili, rivelando anche un sinistro inganno prospettico.



Ci sarà pure un motivo che rende ruvida la solitudine degli uomini più sensibili della Città Corpo, conducendoli all’ultimo atto di una lenta rovina, e chi non scappa ci muore dentro, come Renato Caccioppoli, come Luigi Incoronato. E la pioggia, che scuote la Città Corpo, la seziona come si fa come su un tavolo d’autopsia, è proprio la malacqua che Napoli non riesce a scrollarsi di dosso, e l’allegria aizzata in faccia al mondo è anzitutto una rivolta contro se stessa, perché dietro c’è una tristezza densa, il senso del non compiuto che agita i giorni e le notti di chi, nella Città Corpo, legge i segnali premonitori di una condanna, che, in fondo, nell’annunciarsi, si è già manifestata.



Nella «Malacqua» di Pugliese, quattro giorni di pioggia nella città di Napoli in attesa che si verifichi un Accadimento straordinario (citazione per esteso del titolo, anno 1977, tre prima del terremoto), alla sottomissione delle vittime – ed è vittima anche chi resta, soprattutto chi resta – fa da contraltare la sollevazione della città, con il mare che si alza a invadere i quartieri rincorrendo gli scugnizzi, le colline ferite che inghiottono i mostri della insensata speculazione edilizia, le voci delle bambole che, nel palazzo del governo, piangono lacrime calde e stridule che nessuno sa cogliere oltre il semplice piano della paura, le monete che suonano assurdamente nelle orecchie di chi non vuol sentire.



I presagi, gli ammonimenti, i morti della pioggia e sotto la pioggia che cade incessante, senza dare tregua, la Città Corpo che si sfalda, decadente e corrotta come lo era stata e come lo sarà poi, l’attesa dell’Evento calato da un cielo buio ma – si spera – non del tutto privo di clemenza per il popolo: tutto questo, e altro ancora, diventa poi improvvisamente limpido nei pensieri e nel sorriso davanti allo specchio di Andreoli Carlo, il giornalista alter ego di Pugliese, che cuce gli avvenimenti reali e surreali (ma quali siano i primi e quali i secondi è complicato distinguere) con progressivo distacco, perché solo nella distanza tra sé e la Città Corpo ogni cosa si fa tersa.



(...) Napoli, la Città Corpo, sa mostrarsi anche cattiva e respingente, violenta di un violenza gratuita, non fa opposizione verso chi la adula e la blandisce, sa essere cinica e severa, crudele, con chi la critica e l’attacca; soprattutto deflagra ai bordi del mondo, si ricompone come meglio crede, arrangiandosi e rivestendosi talvolta di quella storia pur grande che non ha saputo governare fino in fondo. Ci vorrebbe un Kafka per illuminarne gli anfratti e svelarne le metafore incistate nel passato, oppure un flâneur-filosofo alla Benjamin – che parlò già a metà degli anni Venti di architettura porosa – per apparecchiare il desco di tutte le contraddizioni di cui Napoli si nutre. (...) Sotto la malacqua sopravvive e prospera la malacarne della Città Corpo, la realtà e la finzione sembrano fatte di una pasta unica, i demoni si riproducono e trasmigrano come in nessun altro posto di sangue e parole, pelle umori e carta. E non è solo suggestione letteraria pensare a Caserta, l’infame dominus dell’«Amore molesto» di Elena Ferrante (1992), e a Delia, la figlia di Amalia – che si muove in una Napoli plumbea tra l’ostilità della gente, e dove persino il mare ha un volto corrucciato, «carta velina violacea incollata su una parete sbrecciata» – come sfibrati antieroi di una città avvitata su se stessa, con lo sguardo proiettato sulle proprie rovine.



Il mare, appunto, come una esagerazione pittorica, muto cronista di una disfatta, riflette sempre meno la bella giornata, che si sfarina nel tramonto a vista del golfo.

(...) La periferia itterica negli anni si è estesa infiltrandosi fin nel nucleo, lasciando all’immagine della Città Corpo le sue cartoline ritoccate: il lungomare «liberato» dalle auto ma non dalla grossolanità della plastificazione a poco prezzo d’ogni bene; il centro antico di una bellezza che spaventa, scuola del pensiero più nobile che Napoli abbia mai prodotto, è come solco sulla faccia di un vecchio; il paesaggio ridotto a simulacro s’incartapecorisce con i pini malati, gli alberi cavi che piombano sulle persone inermi, i palazzi che perdono pezzi, non facendo mistero della loro decadenza.



Persino i funerali, che seguono una ritualità antica, trasportando il morto in un eterno presente fino a provocare la cancellazione dell’assenza sopravvenuta, combinano pioggia e lacrime, e non si sa se l’una sia causa o effetto delle altre, come per Pino Daniele e i tanti giorni degli addii infiniti, un lungo pentimento per qualcosa che poteva essere e non è stato, il valore di una riconciliazione, la ricomposizione di una frattura, la ripresa di un amore.



«Chiove ’ncoppa a ’sti palazze scure / ’Ncoppa ’e mure fracete d’a casa mia / Tutt’attuorno l’aria addora ’e ’nfuso / Chi song’io / Che cammine ’mmiezo ’a via / Parlanno ’e libertà».

Sotto la pioggia, quanno chiove, Napoli produce uno scatto di libertà e d’orgoglio per poi richiudersi sui suoi mali e le disgrazie prodotte, sull’inettitudine e la rassegnazione.
E ogni volta questo ritorno al buio, questa regressione produce contrasti fortissimi, una scarica violenta, e poi un lungo sonno.


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