Pompei, riprende forma anche il pane dei romani

Pompei, riprende forma anche il pane dei romani
di Carlo Avvisati
Martedì 30 Giugno 2015, 10:51
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Pezzo su pezzo. Ma più spesso, briciola su briciola, con certosina pazienza, Antonio Stampone, tecnico del Laboratorio di ricerche applicate della Soprintendenza archeologica di Pompei, sta rimettendo assieme le pagnotte di pane trasformate in duri pezzi di carbone dalla nuvola bollente di gas e ceneri che nel 79 dopo Cristo, tra il 24 e il 25 agosto, si riversò sul versante sud del Vesuvio.



Pazienza e collante. Tentando e ritentando, ora con un pezzetto, ora con un altro, le «tessere» di quello che appare un puzzle – rompicapo di difficile soluzione, alla fine, vanno al loro posto e la pagnotta ritrova la sua forma originaria: tonda e con gli spicchi ben delineati. Eh si, perché il pane consumato in area vesuviana, nel I secolo dopo Cristo, aveva appunto quella caratteristica: era segnato in maniera da poter essere spezzato e diviso facilmente in spicchi. Panis quadratus, veniva chiamato. E quadra, era, appunto la forma dello spicchio di pane che si poteva ottenere spezzando la pagnotta lungo le linee che si dipartivano a raggiera dal centro della forma.

Con circa trenta panifici pubblici, i pistrina, funzionanti, oltre a quelli casalinghi, Pompei dimostra, dunque, come il pane fosse l'alimento principe dell'epoca. Disposti lungo gli assi di scorrimento principali (Via Stabiana, Via dell'Abbondanza, Via Consolare) i pistrina producevano numerosi tipi di pane: farreus, di farro; siligineus, di prima qualità; secundarius, di seconda qualità; plebeius, meno raffinato; militaris, dei legionari; nauticus, per i marinai; furfureus, consumato dai poveracci o dai cani. E quella lavorazione aveva raggiunto tale perfezione che il pane era vantato anche nei graffiti. «Viator – recitava uno tra essi – Pompeis panem gustas, Nuceriae bibes» ovvero: «Viaggiatore, mangia il pane di Pompei ma bevi vino di Nocera».



Ottantuno di quei pani a volte frammentati sino a diventare finissima polvere, vennero trovati, nel 1862, nel forno cosiddetto di «Modesto», nella camera di cottura ancora sigillata da una porticina di ferro. Altri resti furono scoperti ogni qualvolta ci si imbatteva in un forno come quello pubblico detto «dei Cristiani», o il privato della «Casa dei Casti Amanti». Nel forno di Patulcius Felix si trovarono due macine in pietra lavica per il grano e venticinque teglie circolari, di bronzo, in cui veniva messo a cuocere il pane. In un altro si ritrovò persino una impastatrice, con alette mobili inserite in un cilindro ruotante, per lavorare l'impasto. Tutto il materiale recuperato tra Pompei e Ercolano venne poi trasportato al Museo archeologico di Napoli per essere conservato nei suoi depositi. Tranne quei pochi pani, esposti nei musei, che erano rimasti quasi intatti o che i restauratori dell'epoca si erano ingegnati a ricostruire, spesso mettendo malamente assieme i pezzi. I segni di quei recuperi «avventurosi» si vedono, difatti, molto bene sulle forme che il Laboratorio di ricerche pompeiano conserva nella camera climatizzata dopo aver acquisito da Napoli l'intera collezione di residui organici e inorganici.



«L'arrivo di questi reperti – osserva Ernesto De Carolis, archeologo responsabile del Laboratorio di ricerche - ha così consentito di mettere assieme l'intero corpo dei resti organici e inorganici trovati negli scavi e ha permesso di proteggere una delle più importanti e rare raccolte di testimonianze bio–vegetali esistente al mondo. Adesso stiamo recuperando i pani. Una volta terminato il restauro, i pezzi più belli andranno nelle diverse mostre a testimoniare ancora una volta l'unicità di Pompei».
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