Se il lampo di una tragedia civile, appena due anni, tra l’8 settembre del ’43 fino alla liberazione dell’Italia dal nazifascismo, inquieta ancora tante inflessibili coscienze vuol dire che non si trattò di un pallore nel cielo della storia nazionale.
Ma in troppi, rispetto alla Resistenza, sono anche diventati cinici con la caduta tradizionale di ogni difesa immunitaria tipica di quando si ritiene scontata e irreversibile ogni scelta di democrazia. Forse in pochi, invece, nel silenzio dell’Italia della memoria coltivano i giorni della Resistenza come un serbatoio dal quale attingere il ripristino della dignità e l’autorevolezza dell’esperienza civile e politica. Perché il sacrificio, fino alla morte, per la libertà è solo pagina di storia.
La definizione dell’idea stessa della Resistenza, nel mondo della storiografia contemporanea, ha dovuto subìre, negli ultimi cinquant’anni, aggettivi diversi a seconda delle correnti di ricerca e di pensiero: da «tradita» a «sospesa», fino a quello di «incompiuta» come se, travalicato il campo militare e politico, le gesta resistenziali avessero dovuto trasferire sulla storia nazionale un perenne spirito politico più che una pedagogica memoria condivisa. Ora c’è un aggettivo nuovo.
È quello di «Resistenza perfetta», che supera i presunti tradimenti storici e annulla le certificazioni di sospette incompiute politiche. Perché il «perfetta» si riferisce all’esistenza degli uomini che la combatterono e non solo agli effetti che la lotta determinò sullo scenario dell’Italia che sarebbe venuta: più uomini e sangue e meno ideologia resistenziale.
Anzi per
Quando Giovanni De Luna s’imbarca per Torino capisce che al Sud l’orizzonte della lotta sociale nell’Italia di quegli anni non avrebbe mai visto compiutamente il sole. E che forse solo in prima fila nelle prime lotte operaie alla Fiat, alla guida di cortei e di militanza politica rivoluzionaria vera, e non finta, avrebbe potuto affinare quelle doti innate di analisi della realtà con i suoi conflitti più che con le sue certezze.
Basta leggere le pagine dedicate ad un incrocio esistenziale, che diventa metafora anche dell’Italia repubblicana che verrà con i primi partiti di massa, per rendersi conto della forza evocativa del racconto di De Luna. Non è solo geografico, l’incrocio tra i combattenti sulle montagne del Montoso. C’è l’esperienza di Leletta, una diciassettenne cattolica fervente, terziaria domenicana con causa di beatificazione in corso.
Era la figlia della contessa Malingri di Bagnolo e del barone Vittorio Oreglia, che affida ad un diario la tragedia della lotta partigiana. Ma c’è anche l’avvocato siciliano di Caltanisetta, Pompeo Colajanni, che poi sarebbe diventato il partigiano «Natale Barbato» al comando della prima divisione Garibaldi Piemonte. Umanità e politica s’intrecciano, Leletta e i cattolici da una parte, Colajanni e i comunisti dall’altra.
Ma De Luna invita subito alla saggia prudenza: attenti, non fu un compromesso storico ante litteram. È anche una provocazione raffinata ed intelligente, la sua, per indurre la storiografia contemporanea a riconsiderare degnamente il contributo che il popolo dei cattolici e l’istituzione Chiesa italiana garantirono alla Resistenza.
Dalle montagne di Torino alle chiese di Napoli.