Un libro-passaporto per immaginare la guerra (e capire i rifugiati)

Un libro-passaporto per immaginare la guerra (e capire i rifugiati)
di Donatella Trotta
Domenica 27 Luglio 2014, 01:25 - Ultimo agg. 1 Novembre, 20:44
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Un piccolo libro. Con il formato di un vero passaporto: stessa dimensione, colore, caratteri in oro sulla copertina bordeaux. Incuriosisce, come il titolo piuttosto esplicito, che apostrofa direttamente il lettore: Immagina di essere in guerra. Esce in prima edizione italiana nella collana Feltrinelli Kids, ma non solo un libro per ragazzi. L’autrice infatti Janne Teller, non nuova ad affrontare temi di critica sociale eticamente sensibili con un taglio spiazzante che, pur essendo rivolto ai ragazzi, turba e conquista anche, o soprattutto, gli adulti.





Era già successo con il romanzo best seller internazionale della scrittrice danese - mediatrice esperta nella gestione dei conflitti per la Ue e l’Onu, prima di dedicarsi totalmente alla scrittura, dal 1994 - intitolato «Niente» (Feltrinelli 2012), racconto allegorico e perturbante della ricerca del senso della vita dove la tentazione del nichilismo, «ospite inquietante», invade il microcosmo adolescenziale dei protagonisti di una fiaba noir. E accade anche, ora, con «Immagina di essere in guerra»: librino-passaporto per un viaggio che non è di evasione, anzi. È, semmai, un itinerario dell’immaginazione. Non lontana tuttavia dalla realtà che irrompe nelle nostre case con le immagini da Gaza, dalla Siria, dai conflitti dimenticati dell’Africa e di tante zone del pianeta con il loro carico di profughi. E di vittime, in massima parte civili innocenti. Una provocazione della fantasia, quella di Janne Teller, che spinge allora, inevitabilmente, ad un utile esercizio di empatia. E a un prezioso cambio di sguardo. Di orizzonte. Oltre presunte certezze e sedicenti stereotipi.



Accompagnato dalle simboliche illustrazioni graficizzate di Helle Vibeke Jensen, nella traduzione dal danese di Maria Valeria D’Avino, il testo (ai confini tra saggio narrativo e racconto fantastico-realistico) inizia infatti con un rodariano «gioco dei se» per tramutarsi subito, nell’incalzare di domande, in un coinvolgente incubo i cui ingredienti sono quelli di tutti i “deracinées“, esuli, rifugiati di guerra, bambini della nostalgia e creature in fuga dalla paura. Dalla fame. Dal freddo. Dalle violenze. Fino a perdere, con la propria identità, il concetto stesso di patria. E di casa. «Se oggi in Italia ci fosse la guerra...tu dove andresti?» è l’incipit di Janne Teller, che non dà tregua al lettore immaginando il fallimento dell’Unione Europea e un sanguinoso conflitto che devasta il Vecchio Continente. Dove gli italiani, peraltro in guerra con Francia e Austria, sono costretti a cercare e richiedere asilo politico in Egitto, in un prospero, pacifico, democratico e civile Medio Oriente dove la trafila di uno straniero rifugiato è molto dura, ma pur sempre meno del totalitarismo lasciato alle spalle con gli affetti, le vecchie certezze e il benessere perduto.



Il titolo originale del libro, apparso per la prima volta nel 2001 e nato come un saggio romanzato per insegnanti, era «Se i Paesi nordici fossero in Guerra». L’autrice spiega che lo scrisse «quando il dibattito sui rifugiati in Danimarca sembrava trascurare che due dei più importanti valori filosofici, nonché cristiani, in Europa, sono: ”tutti gli uomini sono nati liberi e uguali“ e ”fai agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te“». Non solo. Per la Teller, proveniente da una famiglia di rifugiati austriaco-tedeschi immigrati in Danimarca, «il pensiero che la vita possa essere rovesciata da eventi esterni» è sempre stato molto concreto. Tangibile. Come la conseguente capacità di «mettersi nei panni degli altri». Ma - ed è questo il punto fondamentale del libro, il suo «punto di vista» - non attraverso gli occhi dei migranti che arrivano da lontano, operazione già praticata in molti libri per ragazzi. Bensì, in modo inedito, attraverso i nostri stessi occhi. Quelli del lettore. Che non può cioè escludere che possa capitare anche a lui (il «secolo breve» con i suoi disastri non è poi tanto lontano) l’infelice destino di una catastrofe naturale o umanitaria. O di un regime autocratico nazionalista e imperialista, deciso a conquistare l’egemonia in un’Europa in crisi rispolverando storiche ostilità con Paesi vicini come Austria e Francia e alzando la soglia delle minacce all’incolumità fisica dei dissidenti.



Per loro, fuggire è sopravvivere. Ma affrontando l’annoso problema dell’incontro/scontro tra le culture, del razzismo e di una xenofobia che mette in gioco l’identità: «Per molti versi - considera amaramente Teller nella sua postfazione - avrei sperato che questo saggio fosse oggi già obsoleto, ma la realtà ci mostra il contrario. (...) non suona terribilmente strano, quasi sinistro, che il puro atto di immaginare, per provare e comprendere e a entrare in empatia con gli altri, sia considerato un segno di politicizzazione? Non significa aver già oltrepassato i limiti di ciò che è umano?». Limiti di di «radicati nell’assenza di luogo», come profetizzava Simone Weil nei suoi Quaderni. Una buona ragione per portare, a mo’ di promemoria esistenziale, questo lieve e denso librino-passaporto nella valigia delle vacanze.

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