Da Lia Rumma la «via del latte» in una costellazione di artisti per Pianoterra Onlus

Da Lia Rumma la «via del latte» in una costellazione di artisti per Pianoterra Onlus
di Donatella Trotta
Venerdì 10 Ottobre 2014, 11:38 - Ultimo agg. 13:51
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Arte e solidarietà. Un binomio vincente. Soprattutto quando ventiquattro grandi artisti si mettono in gioco al servizio del sociale. Con la generosa e disponibile complicità di una gallerista di fama internazionale: si intitola «The Milky Way» l’originale mostra collettiva curata da Damiana Leoni che per un solo giorno, sabato 11 ottobre dalle ore 12 alle ore 21, sarà aperta al pubblico nella prestigiosa Galleria Lia Rumma di Napoli (via Vannella Gaetani 12) per raccogliere fondi che saranno devoluti a favore dei progetti di Pianoterra Onlus, un’Associazione che dal febbraio 2008 si impegna a sostegno di famiglie nel disagio sociale, con azioni e interventi mirati alla maternità (e genitorialità) consapevole e alla responsabilità sociale soprattutto nella delicata relazione madre-bimbo, in un welfare di comunità da costruire attraverso una rete di buone pratiche.

«Il titolo della mostra è ambivalente: può significare la via del latte, ma anche la Via Lattea», spiega la curatrice Damiana Leoni, rinviando a una costellazione che, aggiunge, evoca «sia la molteplicità di progetti di Pianoterra Onlus, sia la pluralità di visioni e tecniche artistiche presenti nelle opere donate con grande entusiasmo dagli artisti, che hanno subito risposto con generosità all’appello, come Lia Rumma e il suo staff che ci hanno gentilmente messo a disposizione gli spazi».

Ma viene in mente, anche, quell’immagine di Napoli che Fabrizia Ramondino diede nel suo «Taccuino tedesco», paragonando il proprio legame con la città a quello con una balia, più che una madre, che «della balia ha la povertà e il primo latte», appunto; mentre, aggiungeva Ramondino, «chi non è vissuto in una città balia… difficilmente potrà comprendere come le ordinate costellazioni celesti, a immagine dell’ordine terrestre… siano indifferenti al napoletano», perché è proprio «nella Via Lattea» che il napoletano «ritrova quell’indistinto luminoso brulichio privo di forme e di nomi, quel caos chiaro e nutriente, specchio celeste della sua città».

Ed è infatti un’esplosione di creatività quella che accompagna il visitatore di «The Milky Way» nelle sale di Lia Rumma, in occasione della Giornata del Contemporaneo promossa domani in tutta Italia dall’Amaci (Associazione dei musei di arte contemporanea italiani).

Tra fotografie d’autore, collage, sculture, ceramiche, tempere, acquerelli e molte altre variegate tecniche e poetiche, artisti di grido e giovani di talento snodano il filo rosso del tema comune in una varietà sorprendente di esiti (est)etici. Declinati sul filo simbolico dell’allattamento, del nutrimento, dei legami ancestrali tra padri, madri, figli, della gravidanza e dell’eterno femminino.

C’è, ad esempio, l’«Albero della vita» di Alberto Di Fabio, che con acrilici nelle sfumature dall’azzurro al viola raccontano le molecole del Dna; c’è il «Pane» di Antonio Biasiucci, ritratto in bianconero come un antro ancestrale; c’è il grande cuore che batte di Francesco Clemente, in una stampa a pigmento di forte impatto emotivo dal titolo «Seed», “seme”; e c’è la rotonda mamma incinta di Vedovamazzei in un acquerello intitoato «Ritratto della madre di Stella che fa il morto a galla a Capri», accanto a un’originale quadretto double-face senza titolo di Gabriele Silli, che ha rielaborato l’immagine di una modella in stato interessante tratta da una pagina di rivista di moda alterata da bagni caustici, inchiostro e pigmenti.

C’è, ancora, la visione tridimensionale di Kiki Smith, splendido collage a inchiostro e matita colorata su carta Nepal che raffigura due seni-occhi coperti da rose azzurre e quella “amarcord” di Jeannette Montgomery Barron che in tre suggestive foto-nature morte ha stampato a pigmento su carta di cotone dettagli e indumenti anni ’50 della madre, mentre Gabriele Porta ha recuperato, antichizzandolo con la patina e gli schizzi del tempo e della creatività, un dittico degli anni ’40 delle colonie australiane dei bambini inglesi orfani di guerra, intenti a mungere le mucche e a mangiare in mensa; ed Elisabetta Benassi, con un toccante frammento della sua poderosa ricerca estetica e d’archivio, ha donato un acquerello e matita su carta dal titolo «Father Steals Milk for crying children» (“padre ruba il latte per i bambini in lacrime”, anno 1935).

E se la maternità viene ulteriormente suggerita dall’originale traforatura su poster dall’effetto braille-evanescente di Stefano Arienti in «Yashoda e Krishna», o dall’abbraccio ai cuccioli della creatura fantastica «Biotope VI» nella bella scultura in stoffa di Claudia Losi, o dalla grande e panciuta anfora in terracotta invetriata gialla dai manici zampillanti di Giuseppe Ducrot, il perturbante irrompe soprattutto in due opere dei celeberrimi Marina Abramovic e Luigi Ontani. Nella prima, «Vladka», la Abramovic è ritratta in una foto in bianconero, il volto accanto a quello di una incantevole bimbetta nuda, in piedi in braccio all’artista drappeggiata in un’ampia veste come una mater matuta postmoderna, o una madonna laica e femminista che con il braccio sinistro indica - quasi a rivendicarlo con fierezza - il sesso della neonata; nella seconda opera, Ontani rivisita il mito dell’androgino e della donna barbuta con la foto dipinta in India dal titolo Rajul/Allattamento, BarbudAndrogino, Ribera», dove questa creatura metamorfica tiene in braccio un ragazzino già cresciuto, allattandolo.

Effetto spiazzante anche nelle due coppe in cristallo soffiato di Fabrice Langlade, «Invinoveritas», la cui forma rinvia, contemporaneamente, a due seni femminili ma anche alle protesi in silicone delle operate di cancro, oltre che alle tube e alle ovaie dell’utero femminile; mentre Lino Fiorito, con il suo suggestivo olio «L’uomo invisibile-levitazione», pare alludere alla fluttuante figura paterna nella postmodernità afflitta da sindromi di Peter Pan e di immaturità permanente. In mostra, anche i disegni di Tracey Emin («More Love»), Marzia Migliora, Avish Khebrehzadeh, la serigrafia su carta di Gianluca Malgeri che evoca un’orientaleggiante madre terra, il calco di banane e plinto di metallo di Alek O., e, infine, la stampa fotografica di Paolo W. Tamburella, frammento fortemente simbolico di una performance in Bangladesh conclusa dalla scritta “vita” in lingua locale composta da uova, e il sorriso enigmatico di Gabriele De Sanctis, che ha apposto uno smiley tratto da uno skateboard su marmo di Carrara: fondendo il registro ludico e quello solenne tra l’effimero e l’epitaffio.

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