La morte di Ingrao, Bassolino: «Pietro mi ha insegnato l’inquietudine critica»

La morte di Ingrao, Bassolino: «Pietro mi ha insegnato l’inquietudine critica»
di ​Pietro Treccagnoli
Lunedì 28 Settembre 2015, 08:39 - Ultimo agg. 09:58
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«Era forte come una roccia, Pietro, era forte come una pietra della sua Lenola», Antonio Bassolino non riesce a trattenere la commozione. Ha appena saputo della morte di Pietro Ingrao. Ha bisogno di una lunga pausa prima di parlare, di ricordare, di rievocare una stagione politica e umana che ha visto legati i loro nomi.

«Per me, Pietro era un padre. È stato il mio padre politico». Bassolino ha fatto a tempo a postare su Facebook una frase («Ciao, Pietro. Ti ho voluto e ti voglio molto bene») accompagnata da una foto che li ritrae a Serino insieme con alcuni dirigenti irpini, nei primi anni Settanta quando Bassolino dirigeva la federazione di Avellino.

Presidente, qual è stato il primo sentimento che ha provato quando ha saputo della morte di Ingrao?

«Tristezza, naturalmente, molta tristezza. Ma una tristezza serena perché accompagnata dalla consapevolezza che Ingrao ha vissuto una lunga vita, ma soprattutto una vita degna di essere vissuta. Ha attraversato un secolo intero, in pratica tutto il Novecento. Una vita straordinaria».

Quando l’ha visto l’ultima volta?

«Pochi giorni dopo il compimento dei cento anni. Quando tutte le celebrazioni sono finite sono andato a trovarlo nella sua casa romana, dietro piazza Bologna».

Come l’aveva trovato?

«Da tempo, Pietro stava su una carrozzina, ma anche a 100 esprimeva una forza incredibile nello sguardo. Era piegato, incurvato, come se fosse tornato nel grembo materno, quasi in posizione fetale. Ma restava lucido. Non parlava, ascoltava. Aveva superato da poco una grave influenza e mi rispondeva muovendo le palpebre».

Lei ha frequentato per anni la casa di Ingrao.

«Sì. Andavo spesso a trovarlo a casa, mentre altri dirigenti lo incontravano solo a Botteghe Oscure. Ho avuto modo di vedere quanto in famiglia fosse una persona tenerissima con la famiglia. Era legatissimo alla moglie Laura che era stata insegnante, ma poi si era dedicata come volontaria ai carcerati.

Quando era a casa loro dovevo mettere in conto i racconti sui carcerati che Laura faceva mentre cucinava. Quando Ingrao passava per Napoli, veniva spesso a casa mia. E mi stupiva molto la sua naturalezza: giocava a spadaccino con mio figlio Gaetano che allora era piccolissimo. Mi colpiva perché io non l’avevo mai fatto e non l’ho mai fatto dopo».

Be’, ora sta recuperando con i nipoti.

«Certo, dopo tanti anni mi sarà rimasta dentro anche quest’altra grande lezione di umanità, di freschezza giovanile di Pietro. Una grande persona, limpida. Gli leggevi in faccia quello che aveva dentro. E sapeva stabilire con tutti un rapporto immediato, umano».

Quali sono state le lezioni umane e politiche che più le sono rimaste dentro?

«La grande curiosità. Pietro diceva sempre che bisognava mantenere un’inquietudine critica per le tante ingiustizie che ci sono al mondo: cercare sempre, non fermarsi mai per dare sempre nuove ragioni alla sinistra».

Quanto delle lezioni di Ingrao ha provato a trasferire nella sua attività politica?

«Ingrao mi ha insegnato che la politica deve essere sempre politica di massa e non di piccoli gruppi, deve muovere le masse, deve mantenere costantemente il rapporto con il popolo. Quando sono stato eletto a Palazzo San Giacomo ho sempre cercato di essere il sindaco di tutti i napoletani, senza distinzioni. E poi, mi ha inculcato la libertà di pensiero e la necessità di una politica fatta di rapporti umani, altrimenti diventa aridità».

Con Ingrao ha condiviso anche l’organizzazione di tante manifestazioni pubbliche e di comizi. Che tipo di oratore era e come lavorava ai suoi memorabili comizi?

«Era un maestro dei comizi. Oratore straordinario, uno dei più grandi della storia italiana. Ma era anche un ragionatore».

Aveva una tecnica?

«Certo, molto elaborata, ma sempre efficace. Cominciava parlando del luogo dove si trovava o dalla notizia del giorno. Poi, dalla stringente attualità procedeva verso il discorso classico, le vicende internazionali e nazionali, per tornare di nuovo all’attualità. Catturava gli ascoltatori, sia nelle piazze che nelle riunioni ristrette. Ingrao era l’uomo che il Pci mandava a ricucire il rapporto tra partito e popolo quando si spezzava. Come accadde anche a Reggio Calabria per la rivolta del 1970. Ma forse il comizio più bello che io ricordi è quello che organizzammo all’Alfasud, quando lui era presidente della Camera, in un grande capannone. C’erano migliaia di persone ad ascoltarlo incantati. Pietro conquistava tutti. Era una certezza. Però organizzare un suo comizio era una grande responsabilità, un guaio passato».

In che senso?

«Chiamava molto tempo prima della data stabilita. ”Antonio, puoi mandarmi un appunto?”, chiedeva. L’appunto era una lunga e dettagliata relazione sulle questioni più urgenti del luogo dove si teneva il comizio, sugli umori della classe operaia, sulla dialettica tra i partiti e dentro i partiti. L’analisi di quanto accadeva nel nostro partito e negli altri partiti era molto importante. Pietro leggeva gli appunti e poi mi convocava a Roma, a casa sua, per discutere degli appunti. Venivano fuori tanti altri argomenti e alla fine, in piazza, un evento straordinario perché Ingrao parlava in modo affascinante».

Qual è stato l’episodio che poi ha fatto di lei un ingraiano?

«Io preferisco definirmi ingraiano e berlingueriano. Non c’è un episodio preciso. Però ricordo la grande battaglia dell’XI congresso del Pci, nel 1966. Ero giovanissimo. Fu il congresso con il quale si aprì formalmente la dialettica all’interno del Pci con due grandi poli che facevano capo a Ingrao da una parte e a Giorgio Amendola dall’altra. Pietro intraprese una dura battaglia contro il centralismo democratico a favore del dissenso. Ma perse. Tenne comunque un discorso in cui dichiarò che avrebbe continuato a sostenere la legittimità del dissenso e a invocare un confronto aperto e non nel chiuso delle stanze. Tutto il congresso applaudì, mentre il tavolo della presidenza restò seduto in silenzio. Mi sono sempre chiesto come sarebbe stata la storia d’Italia se nel 1966 avesse vinto Ingrao».

In realtà non è mai esistita una corrente ingraiana organizzata.

«È proprio così. Alcuni gli siamo stati molto vicini in vari periodi: Alfredo Reichlin. Bruno Trentin, Rossana Rossanda, io. Ingrao è stato un grande innovatore della politica e della dialettica all’interno di un Pci allora molto rigido, ma anche un innovatore nei rapporti tra istituzioni e società e tra i partiti e il Parlamento e un grande analista della politica».

È cambiato qualcosa tra voi quando Ingrao, dopo la trasformazione del Pci in Pds, si avvicinò a Rifondazione comunista?

«Sul piano umano, no. In molti adesso ricordano Ingrao per quell’ultimo periodo della sua vita. La sua fu una scelta dolorosa perché il legame con il partito, con tutta la dialettica che abbiamo chiarito, era molto intenso. Lui volle conservare quella che riteneva la propria coerenza».