Casalesi, morto il pentito Schiavone
svelò il business rifiuti di Gomorra

Casalesi, morto il pentito Schiavone svelò il business rifiuti di Gomorra
di Gigi Di Fiore - Inviato a Viterbo
Domenica 22 Febbraio 2015, 23:08 - Ultimo agg. 23:18
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Quel camino in pietra, con l'orologio poggiato sopra e il televisore accanto, era la sua passione. La stanza dove passava più tempo. Quel camino era il calore, il focolare delle sue origini contadine. Carmine Schiavone era salito sul tetto proprio per pulire la canna fumaria, a sbloccare lo sfogo del camino verso il tetto. Un piede in fallo e la brutta caduta. Solo tredici giorni fa. La moglie Maria ha subito capito che doveva chiamare l'ambulanza, portare Carmine all'ospedale.



È iniziato così il calvario mortale del pentito storico del clan mafioso dei Casalesi. Al terzo piano del grande ospedale «Belcolle» di Viterbo, un moloch di cemento, casermone da perdersi, c’è il reparto ortopedia diretto dal dottore Alberto Gaudenzi. Qui hanno capito che c’erano seri problemi a una costola, con pericoli vertebrali da intervento chirurgico.



Forti dolori, con la necessità di inserire chiodi e protesi. In questi giorni, Carmine Schiavone non ha mai perso lucidità. Accanto ha avuto sempre la moglie e il figlio ventisettenne, l’ultimo nato che aveva quattro anni quando il padre decise di collaborare con la giustizia. Fa l’avvocato tributarista, ha ottenuto l’abilitazione una ventina di giorni fa.



E il padre ne era fiero, tanto da dire: «Nello sfacelo della mia vita, di una sola cosa sono orgoglioso, un ragazzino che aveva quattro anni e si è laureato a tempo di record a Roma. È cresciuto senza i miei difetti, della mia vita ha preso solo gli aspetti positivi, osserva e pretende il rispetto delle regole e della legge». Qual ragazzino oggi ha l’accento romano. Vive con i genitori, non conosce nulla della Campania. È lui a seguire la trafila burocratica della morte del papà, lui ad aver trascorso la notte in ospedale.



Erano le 11,20, quando lo hanno chiamato la mamma e il fratello: «Corri, papà sta morendo». Erano arrivate complicazioni, in un uomo di 72 anni che non abbandonava mai il suo pacchetto di sigarette nonostante avesse avuto in passato problemi cardiaci con un intervento di angioplastica. Raccontano i familiari: «Aveva la pressione altissima, lo abbiamo segnalato ai medici».



L’intervento, mercoledì scorso, era durato ben cinque ore. I medici dell’équipe del direttore Gaudenzi erano soddisfatti di come erano andate le cose. I dolori, da mercoledì, hanno però avuto bisogno anche di morfina per tenerli a bada. Ma, negli ultimi due giorni, sembrava tutto superato. Invece, qualcosa è andato storto. Non c’è stato tempo neanche di inserire la bombola dell’ossigeno, né di chiamare un sacerdote. Carmine Schiavone è morto alle 11,30 in ospedale.



E lì è rimasto il corpo, spostato nella camera mortuaria e bloccato per disposizione del procuratore capo di Viterbo, Alberto Pazienti. Una precauzione: per evitare dubbi i magistrati oggi incaricheranno dell’autopsia un medico legale, consulente della Procura. Hanno già acquisito la cartella clinica. Vogliono capire cosa è successo, anche se il figlio avvocato conferma la morte per cause naturali. Forse un infarto. Non si dà pace Maria, due anni fa avevano festeggiato i 50 anni di matrimonio.



Ha 68 anni e sette figli; dell'ultimo, Carmine era fiero, lo aveva tenuto completamente fuori dall’ambiente da cui aveva preso le distanze. Da altri si era allontanato. E in famiglia c’è frattura, non si sa se chi criticò la sua scelta verrà ai funerali. Di loro, aveva detto Carmine: «Non tutti i figli sanno dove vivo, molti mi hanno tradito e non li voglio più vedere». All’inizio, furono soprattutto le due figlie femmine ad allontanarsi dal padre dopo la scelta della collaborazione con gli inquirenti.



Poi, seguirono anche tre fratelli. E se, in quest’occasione, accanto a Carmine sono stati solo due figli, conferma la divisione familiare. Naturalmente, sul registro dei ricoveri dell’ospedale non figura alcun Schiavone Carmine. C’è un altro cognome, un’identità cambiata, come cambiati sono nomi e cognomi della moglie e del figlio ventisettenne.





La casa dove viveva il pentito che consentì l’avvio della famosa inchiesta Spartacus è a qualche chilometro da Viterbo. In un’area di villini di campagna, ben messi e a poca distanza l’uno dall’altro. Un’area controllata dalla stazione dei carabinieri di Ronciglione, a nord del Lazio e in prossimità dell’Umbria. Spiegano i carabinieri: «Da quando nel 2012 è terminato il programma di protezione, naturalmente non abbiamo avuto più in carico il controllo di Schiavone. Ora era un uomo completamente libero».



Pochi giorni fa, l’ultima assoluzione per vecchie vicende. Con una parentesi sgradevole, proprio a Ronciglione. Uno dei figli lo accusò del possesso di armi nascoste. I carabinieri di Ronciglione trovarono in garage un fucile e una pistola. Il gip di Viterbo, Rita Ciarlone, non convalidò l’arresto. E, alla fine, Carmine fu anche assolto: le armi erano di un altro figlio. Guerre familiari, su cui lui aveva commentato: «La denuncia la fece uno scemo matricolato». Era il 2008, la coincidenza di date non sfuggì ai più attenti: era l’anno della sentenza d’appello a Napoli del processo Spartacus.



Un altro punto e a capo di un uomo che si era accusato di circa 70 omicidi e che aveva scontato la detenzione ai domiciliari fino al 2012. A fine pena, aveva cominciato a dare le sue interviste televisive sul famoso verbale secretato, centrato sul traffico di rifiuti nella terra dei fuochi. Sempre nella stanza con il camino, dinanzi al tavolo inondato di carte.



Su quel tavolo, non c’è più la Bibbia che gli aveva regalato don Maurizio Patriciello, il parroco di Caivano venuto da questa parti a fargli visita. Quel libro sacro è ora al primo piano della casa, sul suo comodino in camera da letto. C’è anche la dedica di don Patriciello: «A Carmine, perché possa nutrire il suo cuore e il suo animo con la parola di Dio». Anche se si dichiarava ateo, se non frequentava Messe e chiese, Schiavone aveva cominciato ad aggrapparsi a Dio. Soprattutto negli ultimi tempi, dopo l’avvento di papa Francesco.



Devota è invece Maria, che non si dà pace: ha perso l’uomo che nel bene e nel male era stato il suo sostegno, conosciuto quando era poco più di una ragazzina. Dopo il placet dei magistrati, i funerali si faranno qui. Senza ostentazioni, né grandi cerimonie. I due figli sperano che sia al più presto, nulla sanno della frase ambigua che il padre aveva detto nell’intervista a Sandro Ruotolo: «Ci siamo spesso appoggiati ai Servizi segreti. Anche Zagaria nel 2000 e lo dirò a tempo debito».



Un ultimo tocco di mistero, su un collaboratore che, in realtà, negli ultimi cinque anni nulla di nuovo aveva più rivelato.
Sarà sepolto qui, nella Tuscia. Lontano da Casal di Principe, lontano dalla Campania. «Quella terra non gli appartiene più e anche noi, ormai, ne siamo lontani. Guardiamo avanti ad una nuova vita», dice il figlio. Che è davvero distante anni luce dagli orrori raccontati e vissuti dal padre.