Infarto da superlavoro? Il datore è sempre «colpevole»: lo ha deciso la Cassazione

Infarto da superlavoro? Il datore è sempre «colpevole»: lo ha deciso la Cassazione
Giovedì 8 Maggio 2014, 18:58 - Ultimo agg. 20:20
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ROMA - Era un vero e proprio stakanovista, si portava addirittura il lavoro a casa pur di raggiungere gli obiettivi che il suo datore, una grossa societ di telecomunicazioni, gli aveva assegnato.



Stefano S. - funzionario della 'Ericsson tlc' - non si era mai lamentato per questo stress continuo. Ma un carico di undici ore di lavoro al giorno alla fine lo ha portato all' infarto. Ora la Cassazione ha stabilito che una morte del genere deve essere risarcita dal datore che non può ignorare «le modalità attraverso le quali ciascun dipendente svolge il proprio lavoro».



Alla moglie e alla figlia del dipendente morto per infarto dovuto ai «ritmi insostenibili» dell'attività lavorativa, la società deve corrispondere, rispettivamente, 434mila euro e 425mila euro, oltre agli oneri accessori. Senza successo, la 'Ericsson' è ricorsa in Cassazione contro la decisione della Corte di Appello di Roma che, nel 2011, aveva accolto la richiesta di risarcimento danni patrimoniali e materiali avanzati dalla vedova di Stefano S. anche in nome della loro unica figlia, ancora minorenne. In primo grado, invece, il Tribunale aveva negato la responsabilità del datore.



Ad avviso della Suprema Corte, «con motivazione logicamente argomentata e giuridicamente corretta», il verdetto di appello ha ritenuto che «la responsabilità del modello organizzativo e della distribuzione del lavoro fa carico alla società, la quale non può sottrarsi agli addebiti per gli effetti lesivi della integrità fisica e morale dei lavoratori che possano derivare dalla inadeguatezza del modello adducendo l'assenza di doglianze mosse dai dipendenti». Inoltre, secondo gli 'ermellinì - sentenza 9945 della Sezione lavoro - il datore non può sostenere «di ignorare le particolari condizioni di lavoro in cui le mansioni affidate ai lavoratori vengano in concreto svolte».



Per la Cassazione, «deve infatti presumersi, salvo prova contraria, la conoscenza, in capo all'azienda, delle modalità attraverso le quali ciascun dipendente svolge il proprio lavoro, in quanto espressione ed attuazione concreta dell'assetto organizzativo adottato dall'imprenditore con le proprie direttive e disposizioni interne».



Nel caso in questione era emerso che Stefano S. «per evadere il proprio lavoro, era costretto, ancorchè non per sollecitazione diretta, a conformare i propri ritmi di lavoro all'esigenza di realizzare lo smaltimento nei tempi richiesti dalla natura e molteplicità degli incarichi affidatigli dalla 'Ericsson'». In base alla ctu, l'infarto che lo colpì, un martedì mattina al lavoro, «era correlabile, in via concausale, con indice di probabilità di alto grado, alle trascorse vicende lavorative».



Senza successo la società si è difesa dicendo che i «ritmi serratissimi» adottati da Stefano S. «non erano a lei imputabili ma dipendevano dalla attitudine» del dipendente «a sostenere e a lavorare con grande impegno e al suo coinvolgimento intellettuale ed emotivo nella realizzazione degli obiettivi».





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