Pd, Bersani finisce sotto accusa. I ribelli della minoranza dem: ci ha messo nei guai

Pd, Bersani finisce sotto accusa. I ribelli della minoranza dem: ci ha messo nei guai
di Nino Bertoloni Meli
Martedì 31 Marzo 2015, 06:31 - Ultimo agg. 09:40
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«Bersani ci ha portato in un vicolo cieco». La direzione del Pd si è appena conclusa, le votazioni pure con il corollario dell'ennesimo piccolo Aventino delle minoranze, e alcuni esponenti di Area riformista sbottano. Non all'indirizzo di Matteo Renzi, non è con il premier segretario che ce l'hanno, ma con il suo predecessore, con quello che dovrebbe essere il punto di riferimento della corrente: Bersani Pier Luigi. «A forza di dire e ripetere che queste riforme non vanno bene, che sono l'anticamera dell'autoritarismo, che l'Italicum è una schifezza che non va votata, come componente siamo finiti all'angolo, a difendere posizioni indifendibili, estremistiche e ultra minoritarie, rendendo difficile la stessa mediazione di Speranza».



Lo sfogo è abbastanza comune ai vertici della componente di minoranza del Pd, uscita ancora una volta malconcia dalla riunione di direzione dove il leader ha chiesto la «fiducia politica» sulla legge elettorale. Sicché la decisione presa a strascico di Pippo Civati di non partecipare al voto, va letta come l'espediente tattico per evitare di esibire urbi et orbi le solite minoranze divise al proprio interno anche sulle riforme.



LA CONFUSIONE

E' dall'assemblea romana dell'Acquario, che le minoranze vivono un momento di marcata confusione. Ed è là che si è consumato, forse definitivamente, il distacco dei 30-40enni dai padri nobili, dai Bersani e dai D'Alema, dal loro continuo chiamare alla battaglia finale contro Renzi, puntualmente seguita da una ritirata, con i vari Stumpo, Zoggia, e lo stesso Cuperlo a mugugnare e a masticare amaro.



In questo contesto, ha avuto buon gioco Civati, che tatticamente è uno sveglio, a proporre e far passare la sua idea di non partecipare al voto finale in direzione. Ma dal dibattito, e dalle dichiarazioni successive, si è capito subito che le minoranze divise erano e divise restano: tra quanti non hanno votato ci sono quelli, la più gran parte guidati dal capogruppo Roberto Speranza, che pur non essendo d'accordo sono però pronti a seguire i deliberati di maggioranza. E ci sono i barricaderi, i Fassina e i D'Attorre, che già promettono il loro voto contrario in aula, come ha scandito lo stesso Fassina al termine della direzione: «Io l'Italicum in aula non lo voto».



La stessa posizione sostenuta da Bersani nelle ultime settimane. L'epoca delle mediazioni appare andata in soffitta. Vuoi per la determinazione di Renzi, vuoi perché si è capito chiaramente che in settori delle minoranze più che a una mediazione si è puntato fin dal primo momento al bersaglio grosso: far naufragare l'Italicum per poi andare a votare con il Consultellum, proporzionale simil puro.



LO SCENARIO

La stretta finale renziana ha ottenuto l'effetto di fare uscire allo scoperto i barricaderi: prima Alfredo D'Attorre ha puntato il dito non su questo o quell'aspetto dell'Italicum, ma sull'intero pacchetto di riforme spiegando che «non sta in piedi»; seguito da Stefano Fassina, secondo il quale «qui stiamo cambiando la forma di governo, si sta andando verso un presidenzialismo di fatto».



Gianni Cuperlo è stato molto più cauto, ha fatto come suo solito appello alla coscienza di partito e ha perorato la causa delle modifiche all'Italicum, sostenendo che «da questo, dalla possibilità che la legge torni al Senato, passa l'unità del Pd». Che non è proprio quanto chiesto dal segretario, ma neanche un invito a salire sulle barricate.



MEDIAZIONE DIFFICILE

Appare fin d'ora improbo, il lavoro che attende Speranza. La non partecipazione al voto in direzione da quelle parti è presentata come «un tentativo di prendere tempo per arrivare a una mediazione», che a questo punto è ristretta a un solo punto: «Diminuire la quota di capilista bloccati», come ha spiegato Mauri al termine. Se non si riuscirà, come è già ampiamente previsto, Speranza lavorerà per portare il gruppo quanto più possibile unito al voto. Con un occhio particolare alla prima commissione, dove le minoranze sono in maggioranza: Renzi non intende applicare il “metodo Mineo” (al Senato fu sostituito con uno di maggioranza), ma neanche vuol subire imboscate.