Perché è meglio credere che l’Isis sia davvero forte

di Paolo Graldi
Lunedì 23 Marzo 2015, 22:45 - Ultimo agg. 25 Marzo, 08:13
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«Quelli che sono morti a Tunisi ci criticavano, dicevano che eravamo razzisti…», così, con sommo sprezzo del senso minimo di vergogna, la leghista Gianna Gancia, capogruppo Lega Nord in Regione Piemonte, ha “salutato” le vittime torinesi, Orazio Conte e Antonella Sisino, del massacro del Bardo. Poche parole che racchiudono un’offesa per volgare calcolo politico.



Ma quella frase, purtroppo, si fa interprete di qualcosa che serpeggia e s’inoltra nella nostra coscienza collettiva, stimolandone i luoghi comuni più vieti e volgari. È un segnale, questo del cadere tanto in basso, che va colto e combattuto. È una lettura blasfema e tuttavia chissà quanto diffusa in chi coniuga immigrazione clandestina e terrorismo islamico, chiudendo ogni analisi nello stesso angusto recinto. Ormai, con un crescendo di preoccupazione, gli esperti del Viminale, sul quale convergono le analisi dei reparti investigativi e dell’intelligence, ammettono che tutto si gioca, all’interno del Paese, tra due parole chiave: probabile o possibile? Nel senso che un attacco sul nostro territorio, dopo Parigi, Copenaghen, Tunisi più altri episodi minori ma non meno significativi, viene percepito come probabile.



Insomma non si può ragionevolmente escludere. Ma è anche possibile? Sembra davvero che questa ipotesi, per il momento, non poggi su riscontri o anche solo su sensazioni spendibili: cioè è probabile nella sua improbabilità, un ossimoro che sa di mani avanti per poter giustificarsi, nel caso peggiore: «Noi lo avevamo detto». Il fatto è che l’esperienza dimostra la spaventosa vastità del ventaglio delle ipotesi possibili, dei bersagli ipotetici, delle situazioni a rischio di attacco. Si temono soprattutto i “lupi solitari”, gruppetti di fanatizzati che raccolgono il messaggio sanguinario dell’Isis e lo traducono in missioni.



Con la aggravante che il “martirio”, cioè la messa in conto del sacrifico della propria vita umana, viene vissuto come un plus, un biglietto di prima classe verso il paradiso di Allah. I due ragazzi di Tunisi, autori dell’eccidio del museo del Bardo, avevano messo nel conto della loro missione anche le cinture esplosive, ultimo gesto di supremo sacrificio. Con gente del genere, specie se addestrata in campi dove queste pratiche vengono insufflate con determinazione e successo, la prevenzione a largo raggio deve giocarsi su un filo sottilissimo fatto di allerta permanente (e difficile da mantenere ad alti livelli prolungati) e di capacità di cogliere al volo ogni gesto sospetto, anche il più ingannevole. La cronaca dei massacri degli ultimi giorni, dalla Nigeria allo Yemen, dove l’attacco è rivolto alle chiese e alle moschee, punti di raccolta di moltitudini di credenti, ci segnala una caratteristica antica e insieme rivisitata dello stragismo religioso.



L’uso massiccio di uomini e donne votati alla morte, mimetizzati tra la gente: non serve guardare altrove, è così. L’Italia, considerata in una visione strategica internazionale, è certamente a rischio ma assai meno di altre realtà dove i foreign fighter (radicati nei paesi di adozione, scappaci verso le zone di guerra e poi rientrati per far danni), a quanto se ne sa, sono poche decine al confronto delle centinaia e anche delle migliaia di loro commilitoni venuti da diverse aeree d’Europa, Inghilterra e Francia specialmente. Il dispiegamento eccezionale di forze voluto dal governo è già un passo avanti rispetto a qualche tempo fa, attraversato più da una valutazione scaramantica che da una visione realistica dei pericoli.



E’ tuttavia il raccordo con le diverse intelligence che saprà erigere una frontiera invisibile e insieme invalicabile. Lo choc del Bardo, nel suo dispiegare lutti su diversi Paesi, ha già imposto con determinazione una diversa linea di condotta: l’ammissione delle falle ingiustificabili nella sicurezza minima dei luoghi e la sottovalutazione del rischio immanente. I vertici della polizia sono stati mandati a casa, inadeguati e incompetenti, con l’intenzione da parte del governo tunisino verso l’esterno di mostrarsi risoluto nel recuperare una credibilità indispensabile a proteggere l’economia e in particolare il turismo. Là, addirittura, era fuori posto perfino il poliziotto di piantone al cancello del museo. Tuttavia è sullo scacchiere mediorientale, sulle coste occidentali del Mediterraneo, che si deve guardare in queste ore con estrema attenzione.



Gli sforzi dell’Onu per mettere d’accordo i governi nemici padroni di Tripoli e di Tobruk del dopo Gheddafi vivono momenti decisivi e il mandato del delegato Bernardino Leon, ormai a fine missione, mette a repentaglio anche le residue possibilità di un’intesa tra i due blocchi.
Una intesa indispensabile per iniziare tutti gli altri tentativi di pacificazione e di unione politica e militare contro l’Isis e il Califfato di Abu Bakr al Baghdadi. Va accolta come verosimile la analisi secondo la quale le milizie e la potenza espansiva dell’Isis non è quella che i suoi registi della propaganda vogliono mostrarci annunciando l’assalto a san Pietro e al Colosseo come prossimi e anzi imminenti, ma è questo un caso in cui non ci si dovrà mai pentire di non averli presi abbastanza sul serio.