La miccia dell'euro/ Il fantasma di Sarajevo nell’Europa merkelizzata

di Osvaldo De Paolini
Venerdì 3 Luglio 2015, 21:51 - Ultimo agg. 14 Luglio, 11:59
4 Minuti di Lettura
Il segnale che la situazione in Grecia sta volgendo al peggio è il vertice d’emergenza che ieri Yannis Stournaras, governatore della Banca centrale greca, ha convocato tra i capi delle principali banche elleniche e alcuni membri del governo di Atene per valutare lo stato - che si presume ormai drammatico - delle riserve di liquidità del sistema per poi assumere le decisioni conseguenti.

Davvero un brutto segnale, che rende meno eccentrico il riferimento ai fatti di Sarajevo introdotto nel dibattito da Romano Prodi: la storia insegna che in date situazioni può bastare un piccolo incidente per far precipitare la situazione. E il clima da guerra civile che si respira in alcune strade di Atene di sicuro non aiuta. Anche la prima guerra mondiale scoppiò per un piccolo incidente, mentre tutti erano convinti che un accordo tra la Russia zarista e l’Austro-Ungheria fosse possibile sulla questione serba.



Lo conferma un recente studio dello storico Dominic Lieven, pronipote dell’ultimo ambasciatore dello Zar a Londra, il quale dimostra che nella diplomazia zarista esisteva una corrente ideale molto forte che preconizzava l’accordo. Si temeva infatti che lo scoppio di una guerra avrebbe impedito ogni intesa sullo Stretto dei Dardanelli, il che avrebbe provocato il coinvolgimento della Turchia con gravi danni per l’economia russa. Il colpo di pistola che uccise l’arciduca Francesco a Sarajevo fece crollare tutti i piani delle diplomazie parallele, sicché la Germania entrò in guerra seguita da Francia e Inghilterra.



I sociologi chiamano questi fenomeni «effetti controintuitivi», ossia difficilmente prevedibili anche dalle più raffinate tecniche previsive: è il pericolo che oggi corre la Grecia per l’errore strategico compiuto dal partito di Alexis Tsipras con il varo del referendum in zona Cesarini. L’effetto del voto sarà infatti dirompente, quale che sia il risultato e di sicuro aggraverà il sistema di relazioni delle classi dirigenti greche con quelle europee. Tsipras va dicendo che ciò che chiede ai suoi concittadini non è un voto contro l’euro, ma contro la politica di austerità tout court, contro le regole dell’Europa merkelizzata. E non v’è dubbio che nel chiamare la Grecia al voto il suo intento fosse effettivamente quello; tuttavia, col passare dei giorni quel voto si è caricato di un tale valore politico che oggi è difficile contraddire chi sostiene che si tratta di un voto pro o contro l’euro. Sicché, se vincerà il no tutto il mondo penserà che il no all’euro è nei fatti un no all’eurozona così come la conosciamo oggi. Se vincerà il sì, tutti penseranno che bisogna adeguarsi meccanicamente alle politiche di austerità imposte da Bruxelles (cioè Berlino) e mentre Atene piomberà nel caos di nuove elezioni, Paesi come l’Italia avranno meno facilità nell’ottenere la flessibilità necessaria a riportare l’economia nazionale entro i binari della crescita. In entrambi i casi colei che a un certo punto sembrava messa in difficoltà dall’impeto greco, ossia la cancelliera Angela Merkel, uscirà vittoriosa da questo gioco al rialzo, visto che anche di fronte al prevalere del no sarà comunque giudice insindacabile delle politiche economiche che i Paesi membri intendono darsi. Se c’era un dubbio sul ruolo dominante della Germania sull’Europa, questa vicenda l’ha frantumato. Questo è il vero paradosso della questione greca, che non ha precedenti soprattutto se pensiamo alla storia di quel Paese. L’ultimo default dichiarato da Atene risale al 1932 sotto la dittatura del generale Metaxas, ma anche per tutto l’Ottocento il sistema finanziario greco fu scosso da crisi profonde (quasi sempre a causa del debito) fino a finire sotto tutela esplicita della Banca centrale britannica. Ma quelle decisioni erano il frutto di conferenze internazionali, che vedevano le grandi potenze riunite attorno a un tavolo con l’obiettivo primo di spegnere il fuoco che dall’Egeo rischiava di propagarsi alla Turchia, all’Africa del Nord fino alla Russia zarista per il ruolo strategico che la Grecia aveva sui Dardanelli. Nel caso odierno sembra invece che ci sia una volontà di alimentare l’incendio, invece che di spegnerlo. In tutto ciò, la responsabilità maggiore dell’Europa è nell’aver lasciato mano libera ai falchi tedeschi fautori del rigore ad ogni costo e sottovalutato gli effetti del pericoloso gioco al rialzo che si stava snodando sotto i loro occhi. Il vertice di emergenza che ad Atene vede seduti allo stesso tavolo banchieri e membri del governo mentre fuori cresce l’intensità degli scontri tra manifestanti e forze dell’ordine è infatti solo la punta dell’iceberg, perché contemporaneamente la Bce ha allertato tutte le banche d’Europa contro eventuali derive finanziarie che dovessero profilarsi nei prossimi giorni. Il rischio che il desiderio di stravincere da parte degli euroburocrati - sempre più convinti della necessità della linea dura «perché serva di lezione» - possa trasformarsi nel botto finale capace di contagiare tutto l’Occidente non è infatti remoto. Basti pensare alle decine di miliardi già bruciati da quando si è passati al muro contro muro.



Il premier Matteo Renzi, che nelle ultime settimane ha avuto più frequentazioni con la cancelliera tedesca, dovrebbe ricordare alla signora Merkel che i suoi predecessori Helmut Schmidt ed Helmut Kohl, che tanto hanno dato all’Europa, non perdevano occasione per ricordare che «la Germania deve essere un leader, non un dominatore».
E la Grecia deve continuare ad essere il saldo piedistallo della Nato nel fianco sud dell’Europa.