La storia | I Greci, mai sudditi, capirono la forza della politica

La storia | I Greci, mai sudditi, capirono la forza della politica
di Gennaro Carillo
Domenica 5 Luglio 2015, 13:41 - Ultimo agg. 13:42
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Le relazioni internazionali, come pure le sindacali e le amorose, dipendono dai rapporti di forza. Chi è più forte impone le proprie condizioni, giuste o ingiuste che siano agli occhi della controparte. Per quello che oggi, in ore tragiche per il popolo greco, suona come uno dei tanti paradossi della storia, i primi a enunciare questo assioma del realismo politico furono gli Ateniesi. Ce lo racconta Tucidide, nel libro quinto delle «Storie».



L'episodio è tutto sommato marginale, in una guerra, quella del Peloponneso, che durerà quasi trent'anni, per concludersi con la sconfitta di Atene e l'abbattimento della democrazia. Siamo nel 416 a.C., sull'isola dorica di Melo, una delle Cicladi. Coloni spartani, i Meli vorrebbero mantenersi neutrali nel conflitto tra Sparta e Atene, ma gli Ateniesi, forti del proprio strapotere, glielo impediscono, assediandoli. Prima di procedere alla devastazione, che culminerà con lo sterminio di tutti i Meli adulti maschi e la riduzione in schiavitù degli altri, i capi militari di Atene inviano un'ambasceria dai governanti dell'isola. Terribile l'aut aut prospettato dai legati ateniesi: o combattete, e vi farete distruggere, oppure vi arrendete, e sarete salvi ma schiavi. Segue un negoziato che si svolge a porte chiuse per volere degli oligarchi locali, timorosi delle reazioni del popolo assediato. Ovviamente molto, se non tutto, nel dialogo, è invenzione di Tucidide.



L'argomento degli Ateniesi è di quelli che non si dimenticano (lo riprenderanno Platone e Nietzsche, per esempio, seppure da punti di vista opposti): la giustizia, da intendersi come compromesso e scambio, è possibile solo tra pari, tra parti che siano soggette a un'uguale necessità. Ma quando le forze sono impari, allora i più forti fanno tutto ciò che la loro potenza consente di fare. Ai deboli non resta che cedere, limitando il più possibile i danni. E tutto questo risponde a una legge alla quale non si può derogare, perché fondata su una necessità di natura, vincolante gli uomini ma anche gli dei. A parti invertite, concludono gli Ateniesi, quelli che oggi soggiacciono alla potenza del vincitore non potrebbero fare altro che imporre le stesse condizioni. Ecco perché invocare la clemenza – chiedere il rispetto della neutralità dei Meli – significa pretendere un atto contro natura, contro la logica stessa dei rapporti politici.



Agli Ateniesi spietati di Tucidide va riconosciuto almeno il merito di rendere esplicita una regolarità della politica che l'ipocrisia delle oligarchie tecnocratiche contemporanee tende a dissimulare. L'unico argomento davvero probante è la forza, la condizione contingente di superiorità. Nemmeno la grande vittoria nelle guerre persiane, oltre mezzo secolo prima dei fatti narrati, giustifica l'egemonia ateniese sul mare, la talassocrazia. Legata soltanto alle circostanze attuali, la potenza di Atene, come di qualunque altra polis, non ha bisogno di trarre legittimazione dal passato, finanche il più glorioso.

Invece è proprio di quel passato che ora dovremmo parlare. Ricordando subito un secondo paradosso: è stata la cultura tedesca quella che più di ogni altra ha interpretato la vittoria sui Persiani di Serse come l'atto di fondazione dell'identità non solo della Grecia ma dell'Europa tutta. Come la difesa dell'autonomia politica contro il disegno espansionistico della dinastia degli Achemenidi. Che a quest'immagine abbia contribuito l'uso esclusivo di fonti greche, è evidente. Attingendo a fonti persiane, la ricerca storica più recente ha corretto il tiro e c'è chi arriva a parlare di un impero «multiculturale e multietnico», riabilitando Serse.



Detto questo, è probabilmente enfatico affermare, come fa Barry Strauss nel sottotitolo del suo «The Battle of Salamis», che la battaglia navale di Salamina «salvò la Grecia e la civiltà occidentale». Troppo forte, in quel sottotitolo, l'eco delle tesi neoconservatrici di Samuel P. Huntington (nell'edizione italiana, per Laterza, sparisce qualsiasi riferimento alla “Western Civilization”). Eppure, è indubbio che se il mare Egeo non si trasformò in un lago persiano e l'Europa in una provincia dell'impero achemenide lo si deve anche a quella vittoria, nel settembre del 480. Forse quella di Salamina non fu la vittoria decisiva ma senz'altro la più importante sul piano simbolico. Eschilo, che ne fu testimone, la descrisse nei “Persiani” come una mattanza di tonni, tale fu l'entità della strage.



L'esito della battaglia sembrava segnato in favore della flotta persiana. Eccessiva la sproporzione delle forze: milleduecentosette navi di Serse contro le trecento triremi capeggiate dall'ateniese Temistocle. Invece prevalse la «metis», l'astuzia greca, che costrinse i Persiani in un canale troppo angusto perché potessero manovrare liberamente le imbarcazioni.



Eschilo imputa la sconfitta persiana alla «hybris», alla tracotanza empia della decisione di Serse, “toccato da un demone”, di aggiogare in un unico impero la sponda europea e quella asiatica dell'Ellesponto. In realtà, come si leggerà in Erodoto, il Serse storico fu il continuatore della politica del padre Dario, il cui spettro tuttavia appare in scena nei «Persiani» a deplorare la follia del figlio.

Ma è la regina madre, Atossa, la protagonista di un dialogo che avrebbe commosso e inorgoglito gli spettatori. Angosciata da sinistri sogni premonitori, la regina domanda al corifeo, un vecchio persiano inabile alla guerra, chi sia il «pastore e padrone» dell'esercito di Atene, remota polis d'Occidente (la scena è ambientata in Asia Minore). La risposta memorabile del «barbaro», straniero e nemico, è un tributo di Eschilo agli Ateniesi: «Non si dichiarano sudditi né schiavi di nessuno».

Gli Ateniesi, e gli altri Greci, non ci hanno insegnato solo le categorie con le quali abbiamo pensato per secoli la politica. Per molti versi sono categorie usurate o addirittura inservibili. In primo luogo la democrazia, in ampia misura e più o meno ovunque commissariata. Quelle categorie gli Ateniesi hanno spesso provato a esportarle con la violenza ma le hanno anche difese dagli attacchi esterni. Difendendole per se stessi, le hanno difese per noi. Loro non potevano né volerlo né saperlo. Noi lo sappiamo. E credo sia doveroso riconoscere il nostro debito.
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