San Matteo, se il clan della festa si trasforma in mito

Monsignor Luigi Moretti
Monsignor Luigi Moretti
di Paolo Russo
Sabato 18 Ottobre 2014, 11:19 - Ultimo agg. 11:25
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Siamo circondati dalla camorra. Leggiamo questa parola dappertutto. Ci perseguita. Ogni giorno è nei titoli dei giornali. Incroci un parcheggiatore abusivo e ci pensi, perfino il caso Pantani dopo tanti anni riemerge alle cronache alla prima sillaba sussurrata di un vocabolo che è diventato la nostra ombra. La camorra c’è e va combattuta. Salerno, la città di Salerno, ha vissuto e affrontato la camorra e continua a combatterla ogni giorno grazie al lavoro instancabile di magistrati e forze dell’ordine. Figli e nipoti dei sanguinosi anni Ottanta sono sparsi qua e là a redimersi o a tentare di riorganizzarsi. Guai ad abbassare la guardia. Ma qui non c’è la camorra mafiosa dei Casalesi e nemmeno quella internazionale e spietata di Ciruzzo o’ milionario. Merito di investigatori che sono riusciti a scoprirla e a fronteggiarla, senza mai sottovalutare i rischi di schegge impazzite e retaggi del passato. La camorra esiste ed è subdola, striscia, s’insinua. Ora che la conclusione dell’indagine sulla sciagurata processione di San Matteo - cominciata male con regole mal comunicate e mal recepite - e finita peggio con le invettive al vescovo, spalanca uno scenario inquietante che va oltre l’insubordinazione alle regole e il vilipendio al ministro di culto, è il caso di chiedersi se la camorra ha davvero allungato le sue mani sulla festa del santo patrono. Se davvero Salerno è come Oppido Mamertina. Come il quartiere Barra a Napoli. Come Casal di Principe e come Scampia. Per girare «Gomorra», che tanto successo ha avuto proprio perché in fondo siamo tutti un po’ camorristi e piace specchiarsi in un modello per poi immediatamente prenderne le distanze (si spera), sono state scelte le Vele e il copione di una faida anche quella sconfitta ma non cancellata. Girarla a Salerno, nel centro storico o nella zona orientale o in qualche strada del centro dove l’allarme criminalità resta alto, non sarebbe stata la stessa cosa. Al massimo poteva essere un’operazione d’archivio, si sarebbero potuti rileggere gli omicidi cui si fa riferimento nelle carte della Procura sul «caso San Matteo», tre croci in centro: Berardino Grimaldi, 22 marzo 1996; Lucio Esposito, 3 luglio 1998; Lucio Grimaldi, 18 aprile 2002. Il più recente risale a 12 anni fa. E senza che la città lo sapesse, negli ultimi dodici anni, in questa via crucis di camorra, la processione di San Matteo ha omaggiato tre morti ammazzati con le giravolte lungo un percorso che mai era stato modificato. Scopriamo che c’è un clan della festa, che la camorra sfilava sotto gli occhi della città, e anche che un mese fa, c’è stato un inchino in via Velia in onore di un delitto a Portarotese, che sta lontanuccio, da tutt’altra parte. La lungimiranza della conferenza episcopale campana, sulla scia di quanto accadeva nel Napoletano e in Calabria, ha messo i paletti per difendere il sacro e se non ci fosse stato l’ammutinamento, molti salernitani non avrebbero mai saputo che quelle giravolte erano inchini. Se il 21 settembre scorso sono stati commessi dei reati e se la camorra si è insinuata da tanto tempo nella processione più amata da fedeli e non, questa inchiesta, come tutte quella della Procura, merita il massimo rispetto. Ci saranno sviluppi giudiziari che faranno chiarezza su quanto è accaduto dentro e fuori la festa del patrono. Per ora siamo affacciati sull’abisso tra le pene prevista per un reato come l’offesa al ministro di culto (multa fino a 5mila euro) e quelle invece che seguono una sentenza in cui c’è l’aggettivo «mafioso». Ma intanto la parola camorra non diventi un mantra, evitiamo che le «processioni della camorra» al Sud diventino un mito. Perchè è proprio quello che aspettano i clan e i criminali che, come sanno meglio di noi le forze dell’ordine, da sempre vanno allo stadio, guardano Gomorra in tv, vanno a messa la domenica e costruiscono edicole votive. Dappertutto.
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