C'era una volta Sergio Leone, a 25 anni dalla morte il regista che ispirò un'epoca

C'era una volta Sergio Leone, a 25 anni dalla morte il regista che ispirò un'epoca
di Fabio Ferzetti
Lunedì 28 Aprile 2014, 08:27 - Ultimo agg. 08:51
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Via Tiburtina 1138, stabilimenti della Technicolor, estate 1983. Due giovanotti freschi di studi varcano i cancelli. Sono l per supervisionare la ristampa di alcune scene celebri destinate a una mostra sul cinema.



Quel luogo mitico ma un poco asettico li mette vagamente a disagio. Anche se hanno letto e visto molto, hanno poca esperienza. I tecnici del laboratorio sono cortesi ma distaccati. Uno dei due ha i baffi, entrambi portano il grembiule, premono pulsanti, parlano all’interfono. La magia del cinema sembra lontana o nascosta chissà dove. In fondo per chi sviluppa, stampa e visiona chilometri di pellicola al giorno, la settima arte dev’essere soprattutto lavoro, tecnica, se non routine.

Poi parte la proiezione. Nella saletta di via Tiburtina danzano le prime, lentissime inquadrature di C’era una volta il West. I tre pistoleri aspettano il treno in una stazioncina deserta. Uno si fa scrocchiare le dita. Un altro beve l’acqua che cade goccia a goccia sul suo cappello. Il terzo gioca con una mosca che vola nella canna della pistola. Niente musica, solo ronzii, scricchiolii, il gemito di un dondolo. Per dieci interminabili minuti sullo schermo non c’è altro che vuoto, tempi morti. E attesa. Un’attesa che diventa un concentrato di tutte le attese del mondo. Anche nella saletta regna un silenzio assoluto e i due giovanotti pensano che quei virtuosismi di regia datati 1967 stiano annoiando a morte i tecnici. Invece quando si riaccende la luce quello con i baffi dice all’altro: «A Fra’, sai che me lo rivedrei tutto adesso?».



SCOMMESSA

Per capire la grandezza di Sergio Leone, la sua paradossale e ormai indubbia classicità, basta tornare a questo episodio sepolto nella memoria di chi scrive. Nessuno più di lui, forse, ha saputo incantare spettatori tanto diversi e così a lungo, crescendo film dopo film fino a quel capolavoro che fu C’era una volta in America. Nessuno in Italia ha avuto più influenza sul gusto e sulla produzione cinematografica mondiale di questo regista romano, anzi trasteverino fino al midollo, che ha diretto solo 7 film andandosene ad appena 60 anni il 30 aprile del 1989.

Eppure tutta la sua avventura parte da una scommessa così grandiosa da sfiorare l’assurdo. Abbattere e ricostruire il genere fondante della prima cinematografia al mondo - il western - facendone tutt’altro. Non un’epopea nazionale, per quanto mitizzata dalla ripetizione e dal divismo, ma un macrogenere proiettato nelle zone più fantasiose ma universali del mito. La stampa dell’epoca battezzò le mirabolanti invenzioni stilistiche di Per un pugno di dollari e tutto ciò che seguì, inclusi i mille epigoni che variarono la formula nei modi più diversi, con l’epiteto di western spaghetti. Ma se c’è un genere che ha fatto più volte il giro del mondo, influenzando ancor oggi autori nati in tutti i continenti, questo è proprio l’italianissimo e proteiforme western spaghetti.



IRONIA E NOSTALGIA

Tanto che lo stesso Leone si sarebbe poco a poco allontanato dal western (non ne era neanche particolarmente appassionato, giurava) per esplorare altre epoche. Come disse una volta per tutte Bernardo Bertolucci: «Sergio è uno dei pochissimi registi che ha avuto sempre il passo, il ritmo, l’andatura dell’epos, e l’epicità è qualcosa che non si consuma con gli anni». Rivedere per credere i suoi film. Se Il buono, il brutto, il cattivo oggi ispira addirittura un sequel letterario, è perché tutto il cinema di Leone contiene e prevede la dimensione del gioco, la libera contaminazione di mondi e culture. Umberto Eco paragonò il suo lavoro sul western a quello compiuto da Ariosto col Medioevo. Un modo per dare sfogo a una nostalgia ironica e soprattutto «atea», diceva Eco. Cioè radicalmente, definitivamente umana.

I progetti rimasti incompiuti, nella loro gioiosa megalomania, parlano di ambizioni diverse. Ma dal kolossal sull’assedio di Leningrado all’adattamento di Cent’anni di solitudine in dieci puntate tv (bocciato dalla Rai), passando per La condizione umana di Malraux, il registro di fondo resta quello. L’epica come misura del quotidiano. Un mondo di eventi smisurati perché ricreati «con gli occhi di un bambino», come intuì un futuro grande che a Leone deve molto, Clint Eastwood. A 25 anni dalla morte, Leone ha vinto come regista, ma ha perso come produttore. Nessuno oggi, salvo forse Spielberg, può avere un controllo d’autore così capillare su progetti tanto giganteschi. Con Leone non se n’è andato solo un grande regista ma tutta un’epoca. Grandiosa e irripetibile.





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