De Gregori: "Io, dylaniano non dylaniato"

Francesco De Gregori (Matteo/Bazzi/Ansa
Francesco De Gregori (Matteo/Bazzi/Ansa
di Federico Vacalebre
Sabato 21 Novembre 2015, 00:10 - Ultimo agg. 1 Novembre, 22:53
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Forse Francesco De Gregori aveva bisogno della serenità raggiunta negli ultimi tempi, per concedersi/ci un disco amabile e importante come questo «Amore e furto», in cui traduce e canta il suo mai rinnegato primo modello, sua maestà Bob Dylan. Un mito già da lui tradotto, e quindi «tradito», in passato, con e senza De André. Già sfiorato più volte, l’ultima l’estate scorsa sul palco del Lucca Summer Festival, condiviso, ma da separati in casa. Forse aveva bisogno del ritorno al futuro celebrato all’Arena di Verona con il mucchio selvaggio chiamato alla corte di «Rimmel» quarant’anni dopo. Forse, semplicemente, era arrivato il momento giusto: i dylaniani dylaniati discuteranno a lungo sui versi con cui sono state rese undici perle antiche e più recenti, confessando, si spera, il piacere sorprendente di poter cantare in italiano «Subterranean homesick blues» e «Not dark yet»: una cosa è tradurre sulla carta, un’altra farlo in metrica, non attentando alla cantabilità in nome della comprensibilità, e viceversa. Anche il titolo è una divertita citazione-appropriazione (in)debita («Love and theft») perché, spiega il Principe, «bisogna sempre rubare con passione. Picasso invitava a copiare, ma dai migliori. Io l’ho fatto, e il migliore, ai miei inizi come oggi, è Dylan. Dovrebbero dargli il Nobel, ma per la musica», sorride il sessantaquattrenne cantautore romano.

Com’è iniziata l’avventura?

«Qualcuno di questi pezzi l’avevo già pronto, altri sono venuti quando ho deciso di tentare l’azzardo di un disco di traduzioni. L’idea m’è venuta ascoltando in macchina un’antologia dylaniana, il primo esperimento non mi è sembrato malaccio e sono andato avanti. Dopo anni in cui i nostri nomi sono stati affiancati da altri, ho deciso di affiancarli io senza nascondermi».

Il repertorio affrontato evita i più grandi successi, e soprattutto gli inni «politici», del primo periodo.

«È vero, ma è stato più un caso che una scelta, la traducibilità vinceva su tutto. Ho perso la mia battaglia con ”My back pages”, ad esempio. ”Ero molto più vecchio allora/ sono molto più giovane adesso”: sono versi straordinari, ma trovarne una versione metrica... La sua musica è stata la mia via di Damasco. Da illuminato ho scelto le canzoni che riuscivo a cantare, ”Like a rolling stone” e ”All along the watchtower” in italiano non mi sono uscite. E, poi, sono pezzi sacri, come ”Just like a woman”, ineseguibili».

Così si spazia da «Desolation row/Via della povertà» e «Subterranean homesick blues/Acido seminterrato» del 1965 a «Tweedly Dee & Tweedly Dum» del 2001.

«Con la prima mi ero già sperimentato in passato. De André me la sentì fare al Folkstudio e mi propose di lavorarci insieme, poi la mise sul suo lp rosa, ”Canzoni”. Ma eravamo dei giovani che si presero troppe licenze, che ci misero troppo del loro».

A «Desolation row» manca una strofa.

«Ma non è la stessa che mancava all’epoca della stesura con Fabrizio. Negli anni mi sono addentrato nei misteri dylaniani, ma, ora che la fedeltà, sia pur relativa, non dico filologica, è il metodo adottato, dove non capisco evito di fare castronerie».

Dylan riempie le canzoni di parole.

«Sì, tantissime, ed è fondamentale il suo stile, quel fare entrare troppi termini in un verso piegandolo come vuole lui: non è un caso, non è che non sapeva fare altrimenti, voleva proprio fare così, quelle espressioni, quel significato spesso sibillino, ma anche quel suono».

È per questo che gli arrangiamenti, spesso acustici, sono molto vicini agli originali?

«Certo, ho fatto una fatica per tradurli, che cosa avevo da aggiungere ad arrangiamenti storici? Ed ho evitato di usare l’armonica: non puoi suonarla al suo posto».

Magari qualche ragazzo scoprirà sua Bobbità grazie a questo disco.

«Potrebbe succedere e mi farebbe piacere. In fondo, il mestiere del traduttore è quello del divulgatore, è un primo invito a scoprire l’arte di qualcuno. Io ero un ragazzino che amava De André, i Beatles e i Rolling Stones quando Dylan cambiò totalmente il modo di intendere la musica. Mi mostrò quello che è diventato il mio mestiere. Diciamo che se qualcuno lo conoscerà grazie a me avrò reso a lui un minimo di quello che lui ha dato a me, senza mai farne un mito, senza mai guardare ai suoi lp come a un altare».

Il Dylan «sociale» e quello «sentimentale» si danno il braccetto come in molti dischi degregoriani: qui si passa da «If you see her, say hello/ Non dirle che non è così» a «I shall be released/ Come il giorno».

«Oggi lo traduco, ma in passato l’ho introiettato a fondo, ascoltando questo disco ci si accorgerà quanto abbia permeato il mio stile. Da quando ho scoperto il suo suono così poco allineato del periodo elettrico, l’ho assorbito come una spugna».

Così tanto che in «Sweetheart like you/Un angioletto come te» spuntano dei «pezzi di vetro». E in «Gotta serve somebody/Servire qualcuno» canti: «Puoi chiamarmi Ciccio/ puoi chiamarmi Generale».

«No, sono traduzioni quasi letterali, appena adattate sulla mia persona nel secondo caso, Dylan nelle liriche giocava sul suo nome. Se voglio dire qualcosa di mio, la dico nelle mie canzoni, non con le sue».

Mister Zimmerman ha ascoltato il disco?

«Non credo, abbiamo chiesto ed ottenuto il permesso, ma non penso che se ne sia occupato lui. Ma sa chi sono, e non lo dico per un breve e remoto incontro: nella colonna sonora di ”Masked & anonymous” del suo 2003 aveva usato la mia, pardon sua, ”Non dirle che è così”».

Ma lo merita, questo Nobel, il nostro Bob?

«Certo: se esistesse, quello della musica. Perché chi dice che la canzone è poesia paragona cose diverse, senza rispetto per l’una e per l’altra».

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