Pietro Treccagnoli
L'Arcinapoletano
di

L'altra Sanità

Foto di Sergio Siano
Foto di Sergio Siano
di Pietro Treccagnoli
Venerdì 24 Febbraio 2017, 16:03 - Ultimo agg. 16:06
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Il Rione Sanità è costantemente sospeso tra orgoglio e pregiudizio. Il proprio orgoglio e il pregiudizio altrui. Condannato a un riscatto che non arriva mai. Vittima e carnefice, ombelico di bellezza e ombelico di camorra. Un tempo, prima che fosse ghettizzato dai bonapartisti con la costruzione del ponte che scavallò il fossato, deturpando per sempre il chiostro di Santa Maria della Salute, un tempo la Sanità era il percorso obbligato per salire, trainati prima da cavalli e poi da buoi, fin sopra Capodimonte e verso i casali a nord della città. Adesso è il percorso dove si scatenano le stese per segnare nuovi domini, nel Monopoli di ragazzini armati di pistole e incoscienza. Racket e violenza a deturpare per sempre le coscienze, ma pure palinsesto di pietra, di umile tufo e di aristocratici emblemi. La Sanità, eccola.

Nelle poche centinaia di metri che dall’emiciclo di piazza Cavour arrivano fino alla basilica del Monacone, prima via Vergini, poi via Arena alla Sanità e infine via Sanità, nei secoli si sono dati appuntamento la Storia, l’architettura, la religiosità popolare, la vita quotidiana con i commerci emersi e sommersi e i correlati nutrimenti terresti e marini, i miti del cinema e i resti sotterranei del culto dei morti che non hanno mai abbandonato ai vivi. Oleografia e scenografia si sovrappongono e si confondono, sotto un cielo spesso occultato. Non è sempre la grande bellezza, ma il fascino del Rione che ha avuto come teatrale sindaco Eduardo De Filipp è nel sipario che si apre sul bene della MalaSanità e mostra i palazzi, i bassi, i cortili segreti, le chiese, le bancarelle e le eccellenze come Poppella (la pasticceria dei fiocchi di neve, che vantano diverse imitazioni, finita ieri nel mirino della criminalità). È su questa bellezza neanche tanto segreta che da anni e anni insistono e lavorano associazioni e intellettuali, parrocchie e popoli in cammino.

Davanti alle quinte, invece, sul palcoscenico, spicca su tutto un genius loci: Totò. La sua casa natale è a via Santa Maria Antesaecula, una salita di fronte alla pizzeria di Concettina ai Tre Santi, altro luogo topico cella rinascita non solo gastronomica del quartiere e della città. Accanto al balcone dove visse il Principe della Risata resiste una lapide a futura memoria, appena più su un altarino con la celebre testa dal mento sconnesso si guarda con la dirimpettaia Madonna delle Grazie. Il grande comico aspetta paziente un museo promesso: dovrebbe essere realizzato nel celebrato Palazzo dello Spagnuolo. Qui, più che altrove, rimane simbolo popolare e pop, riprodotto sui calendari esposti da pressoché tutte le botteghe, nelle foto dietro i banconi dei bar (quasi sempre a girare lo zucchero nella tazzina del caffè assieme a Peppino in un frame inflazionatissimo tratto dalla «Banda degli onesti»), nelle insegne dei negozi, nei nomi delle pizzerie.

Nella lunga teoria di bancarelle di panni a prezzi cinesi, delle omologhe con stese di frutta come un presepe sognato da Benino, e poi vetrine con frattaglie e limoni, phone center con scritte in cirillico, affreschi popolari incorniciati in altarini per celebrare quasi sempre san Vincenzo Ferreri, discount di prossimità, bar, centri scommesse, insegne sconnesse e cadenti di negozi abbandonati, parrucchieri, cartelli di fittasi riservati esclusivamente agli stranieri e bassi equamente divisi tra devote alla Madonna dell’Arco e cingalesi, dall’imbocco di via Arena alla Sanità a seguire, spunta la nobiltà, sotto forma di edifici cresciuti sull’antica necropoli e sui resti dell’acquedotto augusteo. La Storia non ha mai abbandonato la Sanità dei vivi e dei morti. Qualche metro prima della casa di Totò, inabissandovi nel ventre tufaceo del quartiere, trovate gli ipogei ellenistici, tombe del quarto secolo avanti Cristo, scovate da Celanapoli di Carlo Leggieri. Fanno da pendant con la serie stratificata di catacombe scavate più sopra e battezzate con i nomi di san Gennaro, san Gaudioso e san Severo.

Proprio i palazzi, a partire da quello dello Spagnuolo, con i suoi colori da meringa alla menta, le scale ideate come una scalata ardita da Ferdinando Sanfelice, sono i gioielli più esposti e talvolta i meno curati. Come l’altro palazzo che porta il nome di Sanfelice, più avanti lungo la strada, e che il maestro dell’architettura pensò per sé, gemello dello Spagnuolo, con il portale decorato da una coppia di sirene a fare da cariatidi per il balcone del piano nobile. Il tempo purtroppo ha reso grigio e grezzo lo scalone che nasconde un cuore verde dove fioriscono gli aranci. 
Prima ancora svetta Palazzo de’ Liguoro di Presicce, all’apparenza un casermone, parzialmente nascosto da una fila di botteghe a fargli da scudo. Appartiene ancora, in parte, alla famiglia di sant’Alfonso e domina la strada con squadrata imponenza. All’interno la consueta stratificazione. Ogni palazzo a Napoli è una piccola Napoli, spalmata su più livelli. I piani aristocratici sono sorretti dal popolo, che, laddove un tempo erano custoditi cavalli e carrozze, conserva adesso auto d’epoca o espone panni stesi, simbolo della maniacale igiene della gente dei vicoli. La Sanità, strangolata dal pizzo, umiliata, offesa, ferita dalle stese, si aggrappa ai propri santi (ne ha bisogno di tanti), agli uomini, alle donne e al passato che a poco a poco può diventare il piedistallo del futuro. Pietra dopo pietra. Perché sulle pietre si cammina
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