De Core, il maestro che amava la «sua» Caserta

De Core, il maestro che amava la «sua» Caserta
di ​Enzo Battarra
Domenica 4 Dicembre 2016, 14:08
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Ci sono artisti che si legano così interiormente alla città in cui vivono e operano da condizionarne gli sviluppi stessi. E al tempo stesso finiscono per subire le ricadute e i contraccolpi che la vita della città determina su di loro.

Sono venti anni senza Antonio de Core, sono venti anni che Caserta ha dovuto irrimediabilmente salutarlo. Era il 6 dicembre 1996 quando l’artista prematuramente, a soli 60 anni, perse la sua partita con il male fisico. Si dirà che i talenti della cultura lasciano un patrimonio in opere che non ha mai fine, che li rende immortali. Questo è vero, i prodotti dell’ingegno restano, per sempre, ma la comunità perde il contatto con la persona, quel sentimento di umanità che rende gli artisti ancor più sublimi rispetto ai loro stessi capolavori. Caserta è orfana di Antonio de Core, così come lo è di tante altre personalità, certo. Ma chi ha vissuto gli ultimi decenni della temperie culturale e sociale della città non può non rimpiangere quella figura di gigante buono, abituato da docente a formare le nuove generazioni, ma anche così radicato nel tessuto sociale di Caserta da essere promotore ed esecutore di tante e tante iniziative sulla città, nella città, per la città.

Un amore così grande è quello che ha legato Antonio de Core a Caserta. E non sempre la città ha ricambiato quanto e come avrebbe dovuto. Ma questo non ha mai frenato quell’impeto a impegnarsi per la comunità che l’artista ha sempre avuto. Basti pensare che la sua scomparsa venne a cadere poche ora prima che si inaugurasse una sua mostra al Ciac M21, lo spazio espositivo del ristorante Soletti di largo San Sebastiano, nel pieno centro storico, il salotto buono. E come non ricordare anche Raffaele Soletti, ristoratore amante dell’arte, riferimento per tutti gli operatori del settore.

Antonio de Core era figlio di Francesco, a sua volta artista decoratore, suoi infatti gli interventi pittorici nel salone del complesso di Sant’Antonio in corso Giannone. Dal padre aveva ereditato la passione, anche la sapienza tecnica, ma Antonio in più ci aveva messo la coscienza civica, il senso del dovere nei riguardi di una città che nei primi anni della sua gioventù appariva addormentata, inerme, abulica. Per questo, completati gli studi all’Accademia di Belle Arti di Napoli, iniziò subito a misurarsi con la Caserta tradizionalista, amante di una pittura rituale e didascalica. Lui ruppe subito gli schemi. Dopo il periodo formativo, Antonio de Core si propose all’attenzione prima casertana, poi regionale, poi nazionale, per la sua capacità a innovare la pittura, il linguaggio, dipingendo paesaggi dell’anima, intime visioni del territorio vissuto. Ecco, il territorio, una costante che non ha mai abbandonato né nella sua ricerca artistica né nel suo vivere nella comunità.

Già giovanissimo, negli anni Cinquanta, si era reso conto dei limiti culturali di un contesto cittadino frammentato e plurimo come quello di Caserta. Ebbene, nel decennio successivo, ecco che Antonio de Core era diventato uno dei leader della rivoluzione artistica casertana. A metà deli anni Sessanta fu tra i promotori del gruppo «Proposta 66», un’aggregazione di artisti che vedeva riuniti alcuni dei nomi che hanno fatto la storia della cultura visiva in Terra di Lavoro, come Crescenzo Del Vecchio, Andrea Sparaco, Gabriele Marino, Attilio Del Giudice. Furono loro i primi «rivoluzionari» di un territorio che si avviava ad assumere nuove identità, nuovi assetti sociali ed economici. Erano gli anni della pop art e Antonio de Core ne colse subito gli aspetti formali ma soprattutto contenutistici, schierandosi con il vate Luigi Castellano, alias Luca, per una pittura che fosse anche denuncia e monito nei riguardi di quello che all’epoca veniva definito come consumismo. La sua ricerca pittorica cresceva e parallelamente aumentava il suo impegno per la città. Con il gruppo del Caserta Club, un insieme di professionisti e operatori culturali legati alla civitas, realizzò all’inizio degli anni Settanta alcune straordinarie mostre collettive nella Reggia: «Perché ancora la pittura» nel 1971 e l’anno successivo «Perché l’ironia». Il Palazzo vanvitelliano, insieme con Casertavecchia, tornerà poi negli anni Ottanta nelle sue stesse opere, con le raffigurazioni dei gruppi scultorei e dei decori vandalizzati. L’amore per la città e per i suoi monumenti lo portava ad ammonire gli stessi politici ad avere rispetto e cura per il patrimonio custodito.

Ma era un inguaribile ottimista, come tutti gli innovatori, e ha sempre sperato nella sensibilità degli amministratori nel valorizzare il passato e il presente artistico, per dare diritto di domicilio e futuro alle nuove generazioni. In questa ottica va letta l’organizzazione della grande rassegna artistica organizzata presso la scuola elementare «De Amicis» nel 1993. Scelse di intestarla a Vincenzo Gallicola nella speranza che il richiamo a uno stimato amministratore del passato fosse un viatico per il nuovo corso. Ma non fu così. Dopo pochi giorni eventi giudiziari diedero uno scossone fortissimo al Comune casertano. Nel ’96 il percorso artistico e civile di Antonio de Core bruscamente si interrompeva.

Ora la città dovrebbe, a venti anni dalla sua scomparsa, ricordarsi di lui, del suo impegno nel migliorare Caserta, nel portare il nome di questo territorio in ogni dove era chiamato a presentare i suoi lavori. Lui era un ambasciatore della Caserta che voleva vivere e impegnarsi per costruire un futuro migliore, un’identità. Un grazie lo meriterebbe, un grazie che potrebbe essere il legare al suo nome lo spazio fisico di un’istituzione comunale dedicata alla promozione della cultura. Sarebbe dire grazie a lui e a quanti della sua generazione hanno creduto in Caserta, paladini di una rivoluzione culturale che poi nei decenni successivi avrebbe continuato a produrre buoni frutti, non solo nelle arti visive, ma anche nella musica, nel teatro, nel cinema, nella letteratura, nell’architettura. E questo ancora oggi, da lassù, è la sua gioia.
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