​Bancarotta Firema, il pm: «Processo per i cugini Fiore»

Bancarotta Firema, il pm: «Processo per i cugini Fiore»
di Marilù Musto
Martedì 28 Febbraio 2017, 08:15 - Ultimo agg. 21:12
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CASERTA - Sul crac di oltre 50 milioni del colosso ferroviario «Firema» di Caserta aveva «ficcato il naso» persino la Procura di Santa Maria Capua Vetere. A tre anni di distanza dalla chiusura delle indagini per bancarotta fraudolenta, il pubblico ministero Antonella Cantiello ha chiesto il rinvio a giudizio per i cugini Gianfranco e Roberto Fiore, ex presidente ed ex amministratore delegato dell’azienda Firema, ma anche per Mario Fiore, ai vertici del gruppo imprenditoriale. Il gruppo imprenditoriale è stato ora comprato da impresari indiani. I cugini Fiore, napoletani, accusati di bancarotta negli anni tra il 2003 e il 2010, devono comparire davanti al giudice Giovanni Caparco venerdì. Una vicenda che scotta, quella della Firema, l’azienda caduta in rovina dopo la cessione delle commesse dell’AnsaldoBreda. Ma il fondo era stato raggiunto fra il 2008 e il 2009 con una caduta libera dell’impresa. Da quel momento in poi anche i posti di lavoro sono stati messi in discussione. Da un lato i bilanci, dall’altro gli stipendi degli operai. Al centro, il destino di un colosso che rendeva fiera Terra di Lavoro, abbandonata da progetti di rilancio di politici locali e nazionali.
Per i magistrati della Procura, il patrimonio di Firema è stato «scientemente depauperato di ben due milioni 610 mila euro e tale depauperamento ha privato di liquidità operativa l’azienda e, nel contempo, danneggiato i creditori». Questa, almeno, è l’ipotesi di reato che si concretizza nella bancarotta fraudolenta, poi derubricata a bancarotta semplice dal gip Giuseppe Meccariello. Il pm Antonella Cantiello ha chiesto il processo per gli ex dirigenti del gruppo. Il tutto, mentre la Firema - impegnata nella costruzione e riparazione di materiale ferroviario - finisce in mano straniera. Dopo tre anni di attese e di ricorsi che hanno riguardato la misura cautelare dei domiciliari applicata ai cugini Gianfranco e Roberto Fiore (subito poi revocata) - al Riesame e in Cassazione - si giunge a una prima valutazione dell’indagine chiusa nel marzo del 2014.
In realtà, ciò che aveva insospettito gli inquirenti era la situazione economica precaria del gruppo, finita nero su bianco nel bilancio di nove anni fa. Gli uomini della guardia di finanza si erano accorti che all’improvviso, in un anno, dal 2008 al 2009, il bilancio della «Firema trasporti» era precipitato verso un passivo di decine di milioni di euro. Un tracollo verticale. Un indicatore contabile che, all’improvviso, aveva segnato il rosso assoluto mentre, solo 12 mesi prima, l’attività dell’azienda era florida e tutto sembrava procedere a gonfie vele. I manager dell’azienda - difesi dai legali Astolfo Di Amato, Ettore Stravino e Giuseppe Stellato - hanno sempre sostenuto di non aver commesso reati. I Fiore, per gli inquirenti, avrebbero eseguito una serie di prelievi, tra il 2004 e il 2007, per complessivi 2 milioni e 260mila euro e nel 2009 per 350mila euro dai conti correnti aziendali. Il tutto mascherando le registrazioni «anomale» e operazioni commerciali probabilmente inesistenti. E così, sarebbero spuntate fuori false fatture emesse da un soggetto compiacente (chiamato a rispondere in concorso con gli indagati), rappresentante legale di una società con sede nel lodigiano, poi dichiarata fallita.
Niente truffa ci sarebbe stata, invece, stando alla versione dei Fiore. Solo un movimento di capitali leciti basato su meccanismi economici complicati.
C’è stato, nel corso delle indagini, in verità, il sospetto che «i prelievi servissero per gratificare i vertici delle imprese con le quali Firema intratteneva rapporti». Il giudice Caparco deciderà se districare il nodo.
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