Cosentino diffamò il pentito:
«Ha leso la sua reputazione»

Cosentino diffamò il pentito: «Ha leso la sua reputazione»
di Marilù Musto
Venerdì 24 Marzo 2017, 08:19 - Ultimo agg. 7 Aprile, 22:07
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CASERTA - «Mi accusano questi pentiti, camorristi schifosi che hanno ergastoli da scontare e patrimoni da salvare». Per una frase ruvida, senza sfumature, Nicola Cosentino è stato condannato a duemila euro di multa e al risarcimento in sede civile per aver diffamato un collaboratore di giustizia, il pentito del clan Belforte, Michele Froncillo.


La motivazione della sentenza del giudice monocratico Marco Occhiofino parla di «aggettivo colorito e offensivo» quando Cosentino pronuncia «schifoso» e di «offesa della reputazione» di Froncillo quando si indicano i pentiti come «camorristi» perché «ogni collaboratore di giustizia ha un proprio percorso di distacco dall’organizzazione criminale di appartenenza». Questo, almeno, è ciò che si legge nelle cinque pagine che compongono la motivazione, depositata qualche giorno fa in cancelleria, nel tribunale di Napoli, della sentenza di condanna che svela il motivo per cui l’ex sottosegretario all’Economia dovrà sborsare duemila euro in favore dell’amministrazione della giustizia, oltre al risarcimento che finirà direttamente nelle tasche dell’ex capozona Froncillo, esponente di spicco del clan Belforte di Marcianise fino al 2007- 2008. È il 2013 quando l’ex sottosegretario viene a sapere di non essere stato inserito nella lista dei candidati alla Camera nel Pdl. Da un lato c’è lui, sulla soglia del carcere a fine mandato. Dall’altro, ci sono una decina di ex affiliati che lo accusano. «Sono menzogne che saranno cancellate da sentenze di assoluzione», disse all’epoca Cosentino.


La storia giudiziaria, in primo grado, è andata diversamente per lui. Cosentino ora è al giro di boa dei processi in corso sul suo conto. E come se non bastasse, il 23 gennaio del 2013 venne querelato da Froncillo, mai nominato apertamente dall’ex politico. Pochi giorni prima, infatti, il 13 gennaio, erano finite fra le mani di Froncillo - relegato in una località protetta - le copie di due quotidiani nazionali che titolavano sulla frase pronunciata dal deputato a margine di una maxi-conferenza stampa all’hotel Continental di Napoli. Dura e diretta era stata la memoria difensiva dei legali Agostino De Caro ed Elena Lepre che avevano spiegato al giudice che «le dichiarazioni rilasciate da Cosentino erano collegate in modo diretto e immediato con il libero esplicarsi della funzione di parlamentare e, dunque, non possono essere oggetto di sindacabilità».
Niente da fare. Per il giudice Occhiofino «le dichiarazioni che Cosentino rilasciate ai giornalisti, anche televisivi, non possono rientrare nello status di parlamentare che lo stesso rivestita all’epoca e come tali insindacabili ex articolo 68». 



Un altro argomento che la difesa aveva presentato durante il processo per diffamazione, riguardava l’obiettivo dell’invettiva. Cosentino, in un’ulteriore intervista rilasciata a un quotidiano il 15 gennaio, aveva parlato di «camorristi» in maniera generale, non pronunciando mai il nome di Froncillo. «La disapprovazione era espressa non nei confronti del singolo - avevano spiegato gli avvocati - ma in una categoria indeterminata di persone, considerato anche che per “schifoso”, stando al vocabolario Treccani, s’intende “soggetti riprovevoli e sleali” visto che si parla di un sodalizio criminoso». Per De Caro ed Elena Lepre, il pentito di Marcianise non era nemmeno identificabile nella frase perché Froncillo non avrebbe patrimoni da difendere. Nella motivazione di Occhiofino vengono però abbattuti anche questi argomenti difensivi.


«Il procedimento penale a carico di Cosentino era sorto in seguito a dichiarazioni di collaboratori di giustizia, tra i quali c’era anche Froncillo, ammesso al programma di protezione. Ne consegue - spiega il giudice - che le affermazioni formulate nei confronti dei pentiti fossero rivolte anche a Froncillo».
Insomma, non si fugge. Cosentino, già condannato tre volte - due per reati mafiosi e una volta per aver corrotto gli agenti di polizia penitenziaria - ora deve risarcire anche il pentito che diffamò. «Per noi nessun elemento consente al collaboratore di giustizia di essere chiamato in causa», fanno sapere gli avvocati dell’ex politico. Che annunciano: «Ricorreremo in appello».
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