«Noi, figli di Cosentino, resistiamo
Condanna nel silenzio assordante»

«Noi, figli di Cosentino, resistiamo Condanna nel silenzio assordante»
di Gigi Di Fiore
Domenica 20 Novembre 2016, 09:21 - Ultimo agg. 11:56
6 Minuti di Lettura

Sono due gocce d’acqua. Fisicamente, Mario e Silvio non si distinguono tra loro. Sono gemelli. Esili, lisci capelli neri ben pettinati, maglione e pantaloni semplicissimi, un conversare sereno e dimesso senza inflessioni dialettali. Sono i figli ventiduenni di Nicola Cosentino. Hanno accettato di parlare dell’esperienza che ha travolto la loro vita: l’inchiesta sul padre per concorso esterno in associazione camorristica, l’arresto, il processo e la condanna in primo grado. Rispondono alternandosi, ma il pensiero è comune.

Mario e Silvio, cosa pensate della sentenza di condanna a vostro padre?
«Non siamo in grado di dare un giudizio tecnico. Ci sono gli avvocati, per questo. Frequentiamo la facoltà di giurisprudenza alla Federico II di Napoli e, per questo, sappiamo che le sentenze si rispettano, anche se magari non si condividono. Speriamo nel processo di secondo grado». 

Come avete vissuto l’attesa della sentenza?
«Sicuramente, in tribunale c’era un clima che ci ha fatto preferire il ritorno a casa, ad aspettare la sentenza dinanzi al camino, con nostro padre. Eravamo in contatto con gli avvocati».

Che reazione avete avuto, dopo la condanna?
«Sembrerà strano, ma c’è stato un assordante silenzio. È durato molto tempo. Nessuno ha parlato, nessuno ha fatto commenti. Poi, come sempre, papà ci ha dato la scossa. Ha detto che si trattava solo del primo tempo, che era una battaglia lunga e bisognava andare avanti».

Come vivete l’esperienza giudiziaria di vostro padre?
«Ha travolto anche le nostre vite, proprio nell’adolescenza quando avremmo avuto bisogno di condividere con la famiglia le nostre esperienze. Abbiamo desiderato troppe volte la presenza di nostro padre ai colloqui scolastici, o festeggiare i nostri 18 anni come tutti».

All’Università avete avuto agevolazioni o difficoltà legate al vostro cognome?
«Né l’uno, né l’altro. Abbiamo sostenuto gli esami sempre con le nostre sole forze. Non abbiamo potuto condividere con nostro padre neanche il primo esame superato, quello di Istituzioni di diritto romano. Avremmo voluto telefonargli. Non era già più possibile».

Che cosa pensate di vostro padre?
«Papà merita rispetto. Continuiamo a camminare a testa alta, orgogliosi di essere suoi figli. Abbiamo capito che è una grande prova cui ci sottopone la vita».

Che rapporto avete con vostro padre?
«Ha sempre tenuto con noi un atteggiamento protettivo. Da grande chioccia. Una volta gli abbiamo chiesto “papà, ma chi te la dà la forza per andare avanti?” e lui ci ha stretto la mano, guardandoci negli occhi e rispondendo “È la forza dell’innocenza e lo dimostrerò”. Una forza che ci trasmette».

Che ricordi avete di Casal di Principe?
«Siamo andati via 10 anni fa, da allora viviamo a Caserta. Era l’ottobre del 2006 e avevamo frequentato le scuole elementari ad Aversa. In paese abbiamo sempre frequentato i cugini, gli zii, i compagni della scuola calcio e nessuno più. Non abbiamo molti ricordi legati a Casal di Principe».

Ci tornate mai?
«Una volta all’anno, per gli auguri di Natale all’unico zio rimasto ad abitarvi».

Che pensate della camorra, del clan dei Casalesi, del boss Schiavone?
«Non abbiamo avuto il tempo anagrafico per percepire le negatività legate a Casal di Principe. Siamo andati via, quando abbiamo iniziato le scuole medie che abbiamo frequentato a Caserta dove si trasferì la famiglia. Non abbiamo mai vissuto quel clima nero. Gli unici luoghi sociali frequentati a Casal di Principe sono stati per noi il catechismo e la scuola calcio».

Che impatto avete avuto con le accuse a vostro padre?
«Eravamo ad un torneo di calcio a Cesenatico. Nostro padre tardò alla partita, arrivando due ore dopo quando era finita. Non vide le nostre prestazioni, i nostri gol. Era successo qualcosa, ma lo sapemmo molto dopo, quando lo vedemmo scosso per la copertina dell’Espresso che pubblicava i primi verbali del pentito Vassallo. Era il 2008, da allora la nostra vita è cambiata».

Anche in famiglia?
«Sì. Non c’era più l’ambiente rilassato cui eravamo abituati. Papà era sempre agitato, quella sua condizione psicologica si rifletteva su nostra madre. Su due quindicenni come noi tutto quello pesava molto».

Cosa avete provato quando vostro padre è stato arrestato?
«Abbiamo vissuto una situazione psicologica devastante. Nostro padre ci mancava molto, era stato sempre molto presente quando i suoi impegni politici glielo consentivano».

Come avete reagito?
«Abbiamo pianto molto. Nel periodo della detenzione di nostro padre, abbiamo dovuto rinunciare a tante cose che facevano i nostri coetanei, i viaggi, le cene con gli amici, le feste per esempio. Una volta a settimana lo andavamo a trovare, prima nel carcere di Secondigliano poi a Terni. Nel periodo in cui a nostra madre era vietato incontrarlo, ci andavamo noi due da soli. Era straziante».

Perché?
«Lasciavamo nostra madre piangere e, quando salutavamo nostro padre, lo vedevamo commosso anche se si faceva forza. Fu così per dieci mesi».

I vostri amici vi hanno isolato?
«Per fortuna, no. Abbiamo mantenuto le amicizie fatte al liceo a Caserta, quelli che ci sono sempre stati vicini hanno capito che siamo ragazzi lineari e semplici. Certo, abbiamo anche conosciuto persone che si dichiaravano amici quando c’era il vento in poppa e poi sono scomparsi. Pochi».

E gli amici di vostro padre?
«Nostro padre ha sempre distinto la politica dalla vera amicizia. Ha sempre sostenuto che in politica ci sono alleati, non amici, legati a interessi momentanei. E infatti tanti sono scomparsi, pochi rimasti».

Che pensate di quello che ha scritto Roberto Saviano, sul linguaggio camorristico, che vostro padre conoscerebbe?
«Non siamo riusciti a comprendere il retro pensiero dell’affermazione. Poco chiaro».

Che idea avete della legalità?
«Che deve cominciare dalle piccole cose, dai comportamenti quotidiani».

Che vorreste fare dopo la laurea?
«Nostro padre ci ha messo il veto sull’impegno politico, sostenendo che qui è impossibile averlo. Silvio vorrebbe fare il concorso notarile, Marco è attratto dall’avvocatura sul diritto societario e amministrativo».

A casa, avete mai parlato di camorra con vostro padre?
«Ne abbiamo cominciato a leggere e sapere qualcosa, solo attraverso gli atti giudiziari di nostro padre e leggendo i giornali, per capire cosa stesse succedendo».

Quando avete capito che vostro padre sarebbe finito in carcere?
«Il giorno del voto parlamentare che autorizzò l’arresto di nostro padre. Vedemmo nostra madre preparagli una valigia. Gli dicemmo di tornare presto e piangemmo».

Vi parla mai del carcere?
«Mai, non vuole pronunciare quella parola. Parla di “periodo di esilio”. Quando proviamo a chiedere, cambia discorso. Ha imparato a fare le torte, però. Un suo compagno di cella era pasticciere. E, con l’ironia che non ha mai perso, nostro padre ha detto “sono entrato boss semplice e sono uscito boss delle cerimonie”».

Che pensate dei pentiti?
«Sono utili strumenti investigativi, ma a volte non dicono la verità e vanno valutati. In molte dichiarazioni su nostro padre, c’è solo fango senza verità».

Cosa pensate dei magistrati?
«Grande rispetto.

Fanno il loro lavoro. Ognuno deve fare il suo lavoro e crediamo che la difesa di nostro padre debba avvenire sempre nei processi».

© RIPRODUZIONE RISERVATA