Vescovo indagato si difende:
«Quei soldi usati per la Diocesi»

Monsignor Valentino Di Cerbo
Monsignor Valentino Di Cerbo
di Mary Liguori e Marilù Musto
Martedì 6 Dicembre 2016, 12:09 - Ultimo agg. 16:54
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Al quarto piano del Palazzo di Giustizia di Santa Maria Capua Vetere il vescovo di Alife-Caiazzo era atteso ormai da giorni. Dopo la divulgazione della notizia sull’inchiesta sull’alto prelato, sulla perpetua di un prete morto a settembre e sul marito di quest’ultima, la procura diretta da Maria Antonietta Troncone ha impresso un’accelerata nel procedimento che ha già portato a un sequestro di 450mila euro. Gli inquirenti vanno avanti, nel più stretto riserbo, d’altronde l’indagine è nella fase ancora sottoposta al segreto.

Top secret è anche il contenuto del colloquio tra monsignor Valentino Di Cerbo, accusato di circonvenzione di incapace, e il sostituto procuratore Antonella Cantiello che coordina l’inchiesta su uno strano spostamento di soldi dal conto di don Giuseppe Leone, prete morto a 93 anni, a quello del capo della Diocesi alto-matesina. Oltre ai carabinieri di Piedimonte Matese, che dopo aver ricevuto una segnalazione anonima avviarono l’indagine nel 2014, oggi sul caso c’è una delega al Roni del comando provinciale dei carabinieri di Caserta, diretto dal tenente colonnello Nicola Mirante.

Bocche cucite da parte degli inquirenti, ma dalla Curia fanno sapere, attraverso una nota, che «sua eccellenza ha ricevuto legittimamente il denaro che poi ha destinato a opere pastorali come era volontà di don Leone» e che il parroco Giuseppe Leone era in grado «d’intendere e volere in quanto nell’anno 2014 ancora veniva considerato in grado di guidare, tanto che aveva ottenuto il rinnovo della patente». Questa è la difesa.

Per ora l’unico dei tre indagati ad essere già stato ascoltato dal pm è il vescovo; Di Cerbo risponde della circonvenzione di incapace, così come i coniugi, ma resta da stabilire come un umile prete di provincia, ovvero don Leone, sia riuscito a mettere insieme tutti quel denaro poi transitato sul conto corrente del vescovo attraverso la perpetua, Rosa Cristina D’Abrosca, e il marito Giovanni Fevola.

E ieri, sul sito della Diocesi «Clarus» sono state pubblicate le donazioni nel dettaglio. «La cifra donata da don Leone è di 588.636,30 euro ed è stata utilizzata, eccetto l’importo di 1.720 euro ancora residui - spiega la diocesi - a fini istituzionali e pastorali della Diocesi di Alife-Caiazzo. Sette le movimentazioni complessive, di cui cinque hanno avuto destinazione il conto corrente bancario della Diocesi di Alife-Caiazzo, mediante il quale la curia effettua i pagamenti di ogni spesa a fini istituzionali e pastorali; c’è il contributo a favore del rifacimento (pavimentazione, sottofondazioni) del Cortile del Seminario di Piedimonte Matese e di parte dei locali della Curia Vescovile, compreso l’appartamento già abitato da don Giuseppe, per 210.000,00 euro; il contributo per il restauro dell’organo della Cattedrale di Caiazzo per 60.000,00 euro, poi per il restauro del coro della cattedrale caiatina per 30.000,00 euro; il contributo per la manutenzione della casa canonica della parrocchia di San Sebastiano in Valle Agricola per 30.000,00 euro, per il rifacimento della casa canonica della parrocchia dei Santi Pietro e Paolo in Alvignano per 25.000,00 euro; il contributo a favore della Fondazione asilo Principi di Piemonte Alvignano per 20.000,00 euro, e per la parrocchia Santa Cristina e San Prisco in Formicola per 43.193,57 euro.

E poi, l’acquisto di due immobili destinati ad opere pastorali a favore della parrocchia Santa Maria Assunta, Cattedrale di Alife dove don Giuseppe Leone ha esercitato il ministero pastorale per più di 40 anni, per 170.000,00 mila euro». Resta, però, come detto, un dubbio grosso quanto una casa. Non è chiaro, infatti, come don Leone, originario di Frosinone, possa essere riuscito a mettere insieme una così consistente somma. Padre Leone pare non avesse natali altisonanti che possano conferire una origine ereditaria a quei «risparmi». Il prete era figlio di un dipendente dell’Enel e la sua famiglia si trasferì nell’alto Casertano proprio perché suo padre ottenne un lavoro alla centrale elettrica del lago Matese. Una famiglia umile, dunque. Ciononostante, aveva messo insieme una consistente somma, probabilmente superiore a quella sequestrata, stando all’indagine. 
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