Desiati e la pornografia sentimentale

Desiati e la pornografia sentimentale
di Diego De Silva
Martedì 1 Novembre 2016, 10:03
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È per via della contraddizione tra allusività della copertina e castità del titolo che un romanzo chiamato Candore attrae il potenziale lettore che nel libro s'imbatte. Una strategica esibizione di opposti che solitamente funziona quando tradisce il romanzo nel merito: compro il nuovo libro di Mario Desiati, intitolato appunto Candore (Einaudi, pagine 232, euro 19), che ha per protagonista un patito del porno, e mi aspetto una storia tutt'altro che candida. Magari lo compro proprio per questo. Bene: in questo caso devo ricredermi. E bastano poche pagine perché capisca di trovarmi davanti alla descrizione di una passione autentica che non ha nulla di perverso. Di più: via via che scorro il diario di questo giovane pugliese che si barcamena per vivere in una Roma periferica e feroce inseguendo la propria utopia di felicità, scopro che la pornografia (quella indefinibile rappresentazione del sesso che Carmelo Bene chiamò «Voglia della voglia», impulso di evocazione di un desiderio assente o già spento), può avere la complessità e l'importanza di un vero sentimento. Martino Bux viene dal Salento, è iscritto alla facoltà di Lettere e si mantiene lavando scale condominiali e tagliando tranci di pizza.

La sua passione per il porno e le pornodive (di cui conosce vita e anche morte, quando muoiono) accompagna i suoi racconti romani negli anni Novanta, prima cioè che la rete irrompesse in quel mercato, consegnandolo a un consumo indiscriminato e totalmente libero. Martino vaga così tra edicole, panchine, sexy shop, cinema e locali a luci rosse, covando l'ambizioso desiderio di realizzare una vita pornografica, trasferire la sua passione in un quotidiano fatto di relazioni, intimità, discorsi, comportamenti sessuali mai fini a se stessi ma significativi di un'appartenenza, un modo d'intendere la relazione con l'altro. Martino non ambisce (o non ambisce soltanto) a fare sesso con una diva del porno, ma a conoscerla intimamente, amarla; o ad amare qualcuna che le somigli. Come Fabiana, in cui vede una somiglianza con un'attrice a luci rosse di seconda fascia, e verso la quale nutrirà un amore sincero di cui conserverà la purezza anche alla fine della loro storia. Desiati è bravissimo nel condurre la narrazione su un registro mai morboso né (peggio) patetico, iniettando nel romanzo un languore, una mestizia che pare una depressione attutita, quasi che il suo protagonista si fosse fondamentalmente arreso alla consapevolezza che la sua vita, proprio in quanto gravata da quella passione, non sarà mai del tutto felice.

È questa tollerabile apatia (così simile a quella «voglia della voglia» prima citata) a consentire alla scrittura di trovare occasioni di divertimento anche nel grigiore e nella tristezza (esilarante la seduta in cui Martino illustra al professore una pindarica tesina che paragona Pasolini a Rocco Siffredi, firmando così la fine del suo percorso universitario). Tutt'intorno, indifferente e fiscale nel battere cassa a chi ci vive a stento, una Roma magistralmente descritta, un affresco metropolitano costruito per pennellate sapienti che in più di un'occasione mi ha ricordato la New York appena accennata (quasi sempre notturna, ma visibilissima) di Steve McQueen in «Shame», un film che, guardacaso, aveva per protagonista un uomo (Michael Fassbender) affetto da un bisogno compulsivo di pornografia. Martino Bux non è Fassbender e Mario Desiati non è McQueen, ma le strade di questi due autori così geograficamente lontani hanno trovato una singolare geometria in uno dei migliori romanzi italiani di quest'anno.
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