Ecco l’attesa monografia su Dulbecco
ultimo maestro della Metafisica vivente

Ecco l’attesa monografia su Dulbecco ultimo maestro della Metafisica vivente
di Ciro Manzolillo
Lunedì 10 Ottobre 2016, 22:03
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L’attesa monografia su Gian Paolo Dulbecco, ultimo maestro della Metafisica vivente (dipinge nel suo studio a Monza) è stata realizzata dal critico e storico dell’arte salernitano Claudio Caserta, che vi ha posto mano dopo aver curato l’allestimento dell’importante antologica articolata tra la Pinacoteca d’Arte Medioevale e Moderna del Duomo di Ravello, la Cappella di Villa Rufolo e la RavelloArtGallery. Esce, infatti, per i tipi napoletani delle Edizioni Scientifiche Italiane un’opera poderosa di 276 pagine di grande formato, con un vastissimo corredo iconografico a cura di Vincenzo D’Antonio. Il volume sceglie di analizzare i cinquanta anni di ricerca artistica dell’artista lombardo attraverso un fantasmagorico viaggio organizzato per capitoli tematici; ciò anche in considerazione di come l’intera produzione non subisca cali di intensità espressiva o di capacità narrativa e si presenti stilisticamente omogenea. Muovendosi tra le esperienze metafisiche, quelle proprie del Realismo Magico ed anche della Nuova Oggettività, Gian Paolo Dulbecco ha dovuto confrontarsi con Savinio e De Chirico, ma anche Morandi e Carrà, con il Doganiere Rousseau e con Grosz, con Donghi, Derain, Severini, Casorati, Sironi. Insomma, un universo stratificato, immenso e densamente animato, attraversato da struggenti articolazioni, spesso drammaticamente contraddittorie, quando non epicedicamente melencoliche. Ciò che segnatamente pare interessare l’analisi che Claudio Caserta ci offre è la caleidoscopica visione sulla capacità, elegante e garbata da distaccato gentiluomo della pittura, di Gian Paolo Dulbecco ad attualizzare la scena della Metafisica ad oltre un secolo dall’apparire di questo linguaggio, sospeso tra il letterario, il teatrale e l’inconscio. Tema dominante ci appare l’esistenza dell’uomo, ovvero la sua sopravvivenza in una spazialità che ha ormai perso gradienti atmosferici e sonorità: un metatempo nell’altrettanto metaspazio dove l’umanità si cerca e si percepisce nell’impronta dell’assenza. Scrive in proposito Caserta: «L’esistenza dell’uomo, il più potente enigma della poesia, pare trovi narrazione nel metaspazio di Gian Paolo Dulbecco. Ma anche còlta in atteggiamenti verosimiglianti, soprattutto per vitalistico dinamismo, la figura umana resta elemento astratto, simbolo e micrototem di una valenza identitaria, quasi dato architettonico, derivazione forse della plastica classicistica riammantata da stilemi dei fiamminghi dei Libri d’ore o dei Primitivi italiani. Le domande, quindi, di cui vive la letteratura, si presentano per ottenere un biglietto di identità. Il dubbio su cosa siamo fatti e a cosa ritorniamo prende tutto il campo, più e prima di qualsiasi problema estetico. Chiaroveggenza sul mistero della creazione, quasi in correlazione col principiare un opus artistico, conoscenza, quindi, e con essa liberazione dall’angoscia del nulla. Ciò che più conta è che l’artista ha concepito un’idea di infinito, nella quale anche i quesiti più assoluti divengono corollari. Al di fuori di tale infinito vi può essere il limite, la rovina, il disfacimento, ma non li vedremo, al massimo percepiremo quell’epicedico stato d’animo proprio di quando si acquisisce il termine di un evento, di una stagione, di un’era, storica o culturale che possa essere, senza riuscire a cogliere qualche elemento di un nuovo principiare di umanità».

Quella di Dulbecco appare immediatamente quale pittura meditata, raccolta, spirituale. Anche il formato contenuto delle opere, in massima parte ad olio su tavola, che pare riportarci alla magia misterica delle icone della spiritualità orientale bizantina, ci orienta verso una confessione dell’animo, quasi una preghiera, un sentimento sospeso sul nulla. Continua in proposito l’autore: «Un po’ come può essere accaduto in età alessandrina, allorquando si percepiva di un mondo concluso, ma non si riusciva ancora ad intravedere qualche traccia di una diversa civiltà. Di qui nasce il senso più compiuto di quel malessere esistenziale che potremmo chiamare melencholia, l’ombra della sera dell’intera sperimentazione creativa di Gian Paolo Dulbecco. Tuttavia, per quanto bloccati nella vicenda storica dell’attuale, l’universo richiede il nominativo del responsabile dell’utopia, capace, magari, non di reinventare un mondo, ma di ricomporre plausibilmente i frammenti dispersi di quello appena frantumato, riedificando una casa di cui sia rimasta conservata l’architrave. Così, l’investigatore della memoria si pone in cammino alla ricerca di ogni elemento utile a questa ricostruzione dell’universo, scrutando soprattutto l’invisibile. Accanto ad immagini familiari, trovano posto archetipi e paradigmi della simbologia, tra storia (le Atlantidi, gli Assedi) e mito (i Labirinti, i voli di Icaro), conseguendo così un raffinato effetto di spaesamento che racconta il non dicibile evocando così il mistero. Gian Paolo Dulbecco dipinge, dunque, il pensiero ed insegna a pensare e continua a rappresentare l’immagine nel suo simbolo, addizionando astrazione alla rivelazione. Si ha, a volte, la sensazione che l’artista visiti lo spazio alla ricerca di elementi di ispirazione e, dopo aver identificato quello paradigmatico, vi costruisca intorno un teoria spirituale e narrativa, fatta di altre figure, entità, tracce, frammenti apparentemente dissonanti. Intorno al paradigma archetipo nasce spesso un modello di inventariazione creativa: serie di dipinti analoghi, con variazioni formali che, alla fine, fanno comprendere come la tessitura spirituale dello spazio possa sensibilmente variare a seguito di un’apparentemente minima mutazione del segno o della cromia».

L’impressione dinanzi al “repertorio visivo” dell’immaginario di Gian Paolo Dulbecco pare quella che si poté vivere nel 1897 dinanzi a “La zingara addormentata” di Henri Rousseau: la magia è innanzi al nostro sguardo, l’irrealtà domina la nostra consistenza e ci trascina in un mondo in cui non potremo mai riuscire a metabolizzare l’essenza dei sogni. Per questo, l’intero volume diventa un viaggio nell’altro se stesso che, senza fissa dimora, visita i Primitivi italiani, le stanze della Commedia dell’Arte, la luminosità tanto atmosferica quanto altrettanto irreale dei Fiamminghi. Non potrebbe su tutto non dominare la dimensione del sogno, come fosse un nuovo espediente dantesco per uscire dal reale e vagare nelle pieghe dell’inconscio, finalmente facendo i conti con la memoria che, anche inconsciamente, condiziona sentimenti ed agire. In questo, Dulbecco è diventato parte integrante dell’animo della pittura. Molti artisti sono presenti al suo tavolo da gioco, ma non per questo li cita anche quando li accoglie spalancandogli le porte. Non sfugge a Dulbecco, infine, al pari di come non poté sfuggire a Picasso, la citazione di Velazquez, in quanto la restituzione del reale, specchiato nel suo spettro, è l’ufficio principe di chi possiede le chiavi per aprire luoghi inaccessibili, proprio in quanto evidenti alla vita.
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