Sotto i luoghi comuni la pelle di Napoli

Sotto i luoghi comuni la pelle di Napoli
di Giuseppe Montesano
Mercoledì 18 Maggio 2016, 09:05 - Ultimo agg. 09:09
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Chi dice che il giornalismo è «ormai» incompatibile o avverso alla scrittura letteraria si sbaglia: lo dimostra in modo evidente La pelle di Napoli di Pietro Treccagnoli. La storia di questo libro, pubblicato da Cairo con una prefazione di Alessandro Barbano, è semplice e istruttiva: il direttore di questo giornale ha deciso a un certo punto di affidare a un suo giornalista-scrittore, tra l’altro autore di romanzi noir, una serie di pezzi che fossero istantanee capaci di scendere sotto la superficie dei luoghi comuni sulla città. Semplice si fa per dire. In realtà, spedito in esplorazione nelle città che formano la Città-Mondo, Treccagnoli non ha scritto solo dei reportage, ma ha applicato ai mondi in cui si è mosso uno sguardo mentale di cui oggi c’è molto bisogno, uno sguardo che di fronte a una realtà frantumata, scheggiata, complessa, non leggibile e non classificabile da un solo punto di vista, ha assecondato la realtà stessa e non i propri pregiudizi o i pregiudizi di altri su quella realtà: il contrario di un’operazione estetizzante.
 

 


E allora nella Pelle di Napoli davanti al lettore incuriosito, sorpreso, divertito e intristito sorgono via Foria che si avvia alla decadenza, ma in cui c’è il giardino-frutteto dove Domenico Cirillo, il medico reale e il rivoluzionario del 1799, studiava le erbe medicinali; la Duchesca che non è più il regno del pacco e del paccotto ma degli ideogrammi; la vicenda del Borgo Orefici dove un tradizione antichissima sembra proiettarsi in un futuro artigianale sensato e nuovo; l’altra Capodimonte, come un mondo dentro un mondo; gli sfasci della Maddalena; i casalesi nel bel mezzo di Posillipo; il Cavone con gli indiani fanatici del polo e del cricket; il melting-pot delle prostitute; le migrazioni interne all’Anticaglia; la Napoli turistica di Spaccanapoli e ancora e ancora. E a leggere i nomi sembrerebbe il solito brulichio folclorico del mordi e fuggi pseudo-giornal-tele-letterario: ma nella Pelle di Napoli il brulichio è letterale, e schiude davanti a noi una ricchezza della realtà per cui un pezzo su Forcella può attaccare parlando del pane: «A Forcella c’è chi ha capito che a fare il pusher di rosette e panelle si guadagna forse meglio che a spacciare droga... È, a smentita dei luoghi comuni sulla scarsa capacità lavorativa dei giovani napoletani, una forma spontanea di imprenditoria, fatta con pochi mezzi e molta fatica...»: continuando con un incrocio da manuale tra intervista, reportage e occhio letterario, mostrandoci qualcosa che non conoscevamo o a cui guardavamo distrattamente.

Treccagnoli si è accostato ai tasselli consumati e non sempre combacianti del puzzle-Napoli con pazienza, provando a restituire non «la» realtà della città ma «le» realtà della città, lasciando che quei tasselli parlassero da soli quando volevano parlare e provando a stanarli o a guardarli «di sbieco» quando si nascondevano. È per questo che in La pelle di Napoli ci sono Domenico Cirillo e Bartolomeo Capasso e molte altre tracce della storia profonda della città, ma senza la stucchevole patina da bel tempo che fu in cui la lode della nobilissima città o della bella giornata diventano il sipario ideologico che nasconde la verità: ma allo stesso tempo, e anche nei luoghi più cupi, come nel pezzo su Vigliena come Gotham City o in quello su piazza Mercato, dove sembra di toccare con mano la decadenza, non c’è l’uso soddisfatto e quindi osceno del folclore dello sfascio. Chi legge non ha bisogno di pensare in ogni momento se è d’accordo o in disaccordo: siamo incuriositi dai fatti, e sospendiamo il giudizio, per pensare o ripensare ai fatti. E anche la scrittura di Treccagnoli, da giornalista attento che però sa anche ritmare le sue pagine, è mimetica verso l’oggetto: frantumata e spicciola a tratti, più sofferta e sensibile in altri, scanzonatamente nera e ironicamente triste: come se volesse scomparire per far parlare facce e luoghi, e attraverso di loro dar voce alla passione contraddittoria per questa città assurda e magnifica.

Parliamo spesso su queste pagine di uno sguardo totalitario che viene posto su Napoli, uno sguardo estetizzante che occulta la verità e impedisce l’atto del conoscere, che è sempre un conoscere «di nuovo»: La pelle di Napoli va in direzione opposta a quello sguardo totalitario, e fa venir voglia di tornare a guardare e ad ascoltare l’inesauribile Città-Mondo.

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