Il romanzo di Saviano,
la paranza e la legge del terrore

Il romanzo di Saviano, la paranza e la legge del terrore
di Francesco de Core
Martedì 22 Novembre 2016, 10:46 - Ultimo agg. 23 Novembre, 09:54
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Uno dei momenti più sorprendenti dell'ultima opera di Roberto Saviano, La paranza dei bambini, annunciato best-seller di Feltrinelli già in cima alle classifiche dei libri più venduti, si condensa a pagina 115. Quando Nicolas Fiorillo detto il Maraja, capo della banda di ragazzini che si muove alla conquista di Forcella e di Napoli, pezzo dopo pezzo, a scuola (sì, perché Nicolas va a scuola, come molti dei suoi amici) commenta in un video nientemeno che il Principe di Niccolò Machiavelli con la sfrontatezza e la irriverenza dei suoi (quasi) sedici anni. «Uno che deve essere il principe non si cura se il popolo lo teme e dice che mette paura. Uno che deve essere principe se ne fotte d'essere amato, che se sei amato quelli che ti amano lo fanno finché tutto va bene ma, appena le cose girano storte, quelli ti fottono subito. Meglio tenere la fama di essere un maestro di crudeltà che di pietà... Se il Principe tiene un esercito, quell'esercito deve ricordare a tutti che lui è un uomo terribile... E le imprese grandi vengono dalla paura che fai». La morale è in una espressione scagliata nell'aria come pietra: «Nun s'addà fa professione e pietà». Ecco: il potere con le sue trame e le sue logiche, secondo l'insuperato Machiavelli, declinato nel ventre malfermo della città da un ragazzino che così sostanzia un'ambizione sfrenata, lucido nella costruzione, inconsapevole dei risultati nefasti che produrrà. Terribili, mai pietosi: il principe e i suoi accoliti devono essere così per sbaragliare il campo e imporsi.

Le traiettorie di queste cellule metastatiche, che inghiottono vittime e carnefici per poi annientarsi come i pesci attratti dalla luce della barca e portati a galla dalla rete a strascico in un sol colpo, Roberto Saviano le misura ormai da tempo. Anzi Saviano è dentro questa realtà, verrebbe da dire fisicamente se non fosse che l'autore vive ancora, dieci anni dopo Gomorra e in conseguenza delle minacce ricevute, una esistenza blindata.
La paranza dei bambini è un romanzo di formazione (criminale) che riproduce un lacerto drammatico, attualissimo, di cronaca ovvero il foglio bianco di quella parte di infanzia annerita e necrotizzata dalla pece della violenza negli antri bui della città antica e, nell'arco vasto delle 346 pagine, sviluppa un intreccio narrativo robusto, fitto, incalzante, potente quanto una raffica di pugni. La paranza è sicuramente più romanzo di Gomorra, ma le scorie di realtà autentici pilastri nell'opera prima pure qui sono depositate ovunque, come monito per le nostre coscienze, e soprattutto per quella porzione di cosiddetta società civile (non contaminata?) che vive in prossimità con il piccolo/grande universo criminale. Quello che pare garantire con risvolti tragicamente ingannevoli un futuro che non è futuro a generazioni sempre più sprovvedute, ai Nicolas e alla sua banda di undici accoliti, ai Tucano e ai Biscottino, ai Pesce Moscio e agli Stavodicendo: perché dietro gli agi e le ricchezze, dietro l'esercizio del comando, c'è il marcio, c'è il nulla, c'è l'odore di morte. Nella frattura tra vecchio dominio malavitoso e imberbi gang che scorrazzano sui motorini seminando ormoni impazziti, risate tracotanti come «ragli di Lucignolo», spari ciechi nelle stese, brama di denaro e champagne, c'è tutta la trasformazione della geografia camorristica di Napoli e quindi la sua fino a un certo punto sorprendente - unicità. Saviano si immerge totalmente per farci immergere a nostra volta tra vicoli e cariatidi di cemento, labirinti e covi, gesti immondi e baci acerbi, messaggini come coriandoli, pacche sulle spalle ripicche vendette e faide riproducendo i suoni e i modi di uno slang che, all'antica lingua, deve molto pur distorcendola con i termini di un esperanto modaiolo e social che affonda nell'inglese universale. Continui sono i riferimenti alla virtualità e lo sfrontato utilizzo delle nuove tecnologie, che ormai di nuovo ovvero di innovativo non hanno più nulla. I modelli sono quelli di certa musica antagonista e dei serial americani (c'è persino un riferimento alla pettinatura di Genny Savastano, protagonista del Gomorra televisivo, così che la polemica sul cortocircuito reale/fiction/ri-produzione del reale viene fatta evaporare da Saviano, ironicamente, in un taglio di capelli ma comunque digerita dal contesto e dal tessuto espositivo).

La scuola, la famiglia, la Chiesa, il mondo del volontariato, per non parlare delle terminazioni dello Stato, sono riferimenti sfocati che pur presenti sul territorio vengono vissuti come ostacoli alla presa del potere, semplici feticci da abbattere. Una barriera da infrangere per arrivare ai soldi facili. Al sesso rapido e all'amore ingenuo. Alla droga, alle armi, alle scarpe griffate, agli scooter più veloci. In breve, a quella notorietà in loco che, appunto, si avvera nel terrore creato ad arte e nella sottomissione altrui. Nicolas il Maraja - e accanto a lui i muschilli che si agitano come figure di un videogioco - ama concretizzare la sua sete di gloria con una lettura intuitiva, e grossolana, di Machiavelli; ma prevedere le conseguenze delle proprie azioni (sempre più ardite, quindi sempre più drammatiche, fino al sanguinoso e sorprendente epilogo) non è tecnica che l'aspirante boss riesce a leggere in filigrana nelle pagine del Principe, fermandosi a una superficialità grezza.

Il confine tra bene e male - come nella storia bipolare del Rosario di Certi bambini, folgorante romanzo di Diego De Silva è così fragile, labile, che si sgretola alle prime pagine, esemplificative di un modo di agire e di interpretare la vita con irridente perfidia. La notte della sopraffazione e della ferocia cala su Napoli portandosi via i colori; non compaiono (volutamente) altre sfumature, perché il cielo dei condannati, che possono essere nello stesso momento innocenti e colpevoli come in questo libro, è buio sempre. Il bene esiste ma sta lì, sulla difensiva, arretra, non sfonda, non fa proseliti, si secca e si esaurisce nel fiato di parole nobili ma spesso vane, rituali. Perché alla fine «tutti erano nella paranza senza saperlo. Le leggi erano le leggi della paranza». Ovvero le leggi della brutalità pronte a ritorcersi contro chi le ha imposte, lasciando a terra sangue e macerie.

La paranza dei bambini, come detto, esce a dieci anni da Gomorra. Nel 2006 quel libro spurio, ibrido, ha avuto due meriti enormi: ha saputo coniugare i profili di verità della cronaca al rigore della denuncia civile e alla potenza espressiva della narrativa (e se c'è un riferimento, questo è Ermanno Rea, da Mistero napoletano all'ultimo Nostalgia, sui pochi altri inclassificabili o mal tollerati dall'accademia); ha più prosaicamente collocato la camorra i Casalesi come i clan di Scampia, i protagonisti di trame internazionali e i semplici operai della malavita sui comodini degli italiani, missione mai portata a pieno compimento da articoli di giornale, servizi e programmi tv, saggi e romanzi. In più, a fare la differenza, oltre ogni generalizzazione innescata dagli eventi successivi all'uscita del libro e al savianesimo spesso d'accatto, su cui continuano a campare mediaticamente orde di scrittorucoli e professorini (favorevoli e contrari), fu proprio l'io dello scrittore, la sua sovraesposizione, il suo modo poderoso di ergersi, la sua forza straripante. Qui, nella Paranza, l'io si ritrae, fa un decisivo passo indietro, non si mostra affatto. Non ha la tentazione di sporgersi né di giudicare. Semplicemente lo scrittore tratteggia fatti e persone, avviluppati nella spirale del male, con tutta l'energia che la narrazione può liberare nella elastica cornice dello schema romanzesco. E se ciò può magari rappresentare una delusione per chi, pur legittimamente, continua a cercare l'io di Saviano in ogni libro di Saviano, è invece una scoperta (o meglio una conferma) per chi crede che Saviano sia uno scrittore autentico, non un fuoco fatuo, capace di accordare con perizia e passione gli strumenti che la letteratura dispensa davanti a una storia. Che mette radici salde quando, da ossessione dell'autore, diventa nostra e ci appartiene. Come la parabola di Nicolas il Maraja e dei suoi compagni ancora troppo bambini per diventare adulti, uno sfregio a turbare la nostra quotidianità più o meno serena, mai del tutto nera, mai del tutto bianca, forse solo infelicemente distaccata e mediamente opulenta.
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