Un cane apologo della città ferita nel libro di Russo e Castiglione | Foto

Un cane apologo della città ferita nel libro di Russo e Castiglione | Foto
di Fabrizio Coscia
Venerdì 24 Giugno 2016, 21:42
3 Minuti di Lettura
Oliver è un cane bastardo, randagio e tracagnotto, nato in un frutteto ai bordi della Domiziana, in piena Terra dei Fuochi ricolma di miasmi e veleni. Caritatevolmente raccolto da una ragazza, che lo ha trovato zoppicante e malmesso, vive diverse peripezie, passa di abbandono in abbandono, si ritrova terrone e migrante al Nord, e trova finalmente adeguata sistemazione e affettuosa accoglienza in una casetta di campagna della Lomellina. Attorno alla figura di questo lontano parente d'un labrador retrivier, e sull'asse Napoli-Milano, si sviluppa il romanzo breve Oliver e altri migranti, scritto a quattro mani da Sergio Russo e Corrado Castiglione (goWare, pagine 100, euro 9,99).

Un libretto curioso, che è diverse cose insieme: elogio sincero dell'amicizia, riflessione sofferta sul rapporto padre-figli, e un amaro pamphlet su una città ferita a morte. I due autori sono entrambi napoletani, ma con due percorsi diversi rispetto alla propria città d'origine: uno (Castiglione) ci è rimasto, l'altro (Russo) l'ha lasciata; e su questa alternativa si regge parte del romanzo, dal momento che anche i due protagonisti hanno compiuto scelte analoghe.
Edoardo, l'io narrante, si trova infatti a far visita al suo amico fraterno Gigi, che vive in Lombardia. Con lui, sono venuti anche due dei suoi tre figli: il primogenito, soprannominato ReGiorgio, studente di ingegneria elettronica, perché determinato a trasferirsi a Milano per iscriversi al Politecnico.
 
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E proprio questo confronto tra i due vecchi amici (un reciproco rispecchiamento) e tra padre e figlio, induce ad amare riflessioni sul tema del restare e del partire: «Ecco, ora lo dico: invidio mio figlio perché prova a realizzare un proprio sogno e forse di più perché riesce a mettersi in fuga dalla nostra città, dove sento che è in atto un contagio irreversibile, che - come nella Orano di Camus - intorpidisce inesorabilmente i muscoli e consegna l'organismo a una morte tanto graduale quanto certa. Dove probabilmente il decesso è già avvenuto. E allora mi sento un po' meno frustrato quando penso di essermene rimasto rassegnato qui».

In effetti, l'idea di scrivere un libro su Napoli come Orano, sulla peste metaforica di Camus all'ombra del Vesuvio, con i topi che prendono le forme dell'abbandono, della violenza e della disperazione, è un'idea che spesso è balenata nella mente di Edoardo, senza che sia stata mai tradotta in un progetto concreto.
Adesso, però, la storia di Oliver, il randagio adottato da Gino, la sua psicologia canina e i suoi assiomi che sono un distillato di saggezza, almeno per come li traduce il suo padrone, sollecitano nuove riflessioni: Edoardo sa che dietro le sue scelte, perfino dietro la sua indolenza, si nasconde l'incapacità di accettare la vita con le sue evoluzioni, quel che invece ha imparato, da sempre, l'amico.

Gino è, infatti, «un migrante nello spazio (con le sue tredici case e cinque città cambiate), nei sentimenti, nelle idee, nei desideri; un funambolo a cui riesce anche l'ultima, sorprendente giravolta, in un epilogo inaspettato che ha il sapore dell'apologo morale.

Salvo poi consegnare il finale al suo fedele cane parlante (divenuto mangiatore di patelle su uno scoglio), che sussurra verità riconcilianti, invitandoci a imparare ad ascoltare il «rumore di fondo» del nostro destino.
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