L’altro abito di Antonio Marras:
la mostra a Milano

Marras
Marras
di Verdiana Garau
Sabato 22 Ottobre 2016, 09:19 - Ultimo agg. 24 Ottobre, 09:53
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Triennale Design Museum presenta a Milano, a partire da oggi 22 Ottobre fino al 21 Gennaio 2017, una fantastica retrospettiva su Antonio Marras e delle sue opere. Il grande designer e artista contemporaneo di origine sarda, noto al grande pubblico internazionale, svela i retroscena del suo più intimo mondo creativo.

 

Organizzata con la partnership dell’Assessorato del Turismo, Artigianato e Commercio con la Regione Sardegna, questa mostra antologica è stata curata da Francesca Alfano Miglietti e vuole essere una reinterpretazione, un percorso attraverso la memoria, una ricostruzione del rapporto tra l’artista e la sua produzione artistica.

Ciò che interessa, ciò che vuole emergere non è tanto un risultato, non ci sono infatti le sue collezioni di abiti a fare da protagonista, ma il processo del risultato, ovvero tutti quegli oggetti, feticci, disegni, diari, schizzi che Marras nasconde, colleziona, ripone nei suoi cassetti e produce ogni giorno, senza interruzione, dando libero sfogo alla sua fantasia.

NULLA DIES SINE LINEA (nessun giorno senza tratto) è infatti il titolo della mostra, ispirato ad un’antica citazione di Plinio il Vecchio che, ritraendo con le parole il pittore Apelle, diceva «non lasciava passare giorno senza tratteggiare col pennello qualche linea».

Un incontro questo, con il mondo sconosciuto, il mondo celato, il mondo dietro le quinte degli spettacoli dell’artista. Antonio Marras è imbarazzato, quasi colto di sorpresa quando gli viene passato il microfono durante la conferenza stampa e dice: «Non so cosa dire in realtà. Sono un uomo prestato agli stracci, qui arrivo letteralmente in un’altra veste». E ringrazia. Ringrazia per la follia di coloro che lo hanno incoraggiato a realizzare la mostra e che hanno ampliato, come dice lui, la sua stessa pazzia, nutrito il suo “caos”.

Anche la curatrice ringrazia, è entusiasta di restituire questo immaginario al pubblico e ci ricorda che la vera potenza sta nell’immaginario.

«Solo i folli hanno cambiato il mondo..(…) i ribelli rischiano la credibilità» e la mostra, secondo la curatrice, vuole riportare l’attenzione sui soggetti puri perché non sono tanto le radici ad essere determinanti, la stabilità e la conservazione di queste, quanto la loro contaminazione.

Come Antonio Marras, sardo, ma cittadino del mondo, un pezzo di una terra pura, staccata e rimessa nel caos dell’universo, restituitaci sotto forma di nuova e brillante personalità, di nuova identità.

C’è pudore in Antonio Marras, più che timidezza. Il percorso della mostra che si svolge tecnicamente in tre navate, è suddiviso poi in quelle che potremmo definire stanze, ognuna delle quali riproduce un’intima scatola della sua fantasia, delimitate da vecchie porte o finestre dai vetri smerigliati che ricordano i corridoi, le camere e le anticamere delle vecchie case in Sardegna.

C’è la camera da letto, ovvero simbolicamente il luogo delle mogli, con all’interno una serie di disegni dai soggetti erotici, ci sono la scuola, ovvero le Istituzioni, con una serie di grembiulini appesi rigorosamente e ordinatamente in fila sugli appendiabiti da muro delle scuole.

La scuola, quello che per Marras forse è stato il suo primo approccio con la società: di sottofondo si sentono le voci registrate degli alunni che fanno baccano e della maestra che con voce altèra impone loro di fare silenzio, richiamandoli all’ordine.

Ci sono i laboratori, cioè il luogo di lavoro. Pupazzi di pezza, deformati e allungati in un contesto decisamente onirico e spettrale, che fluttuano nello spazio richiamando all’ossessione.

La stanza del matrimonio, del mondo coniugale, chiamata “notti bianche” che forse con un piglio ironico, ci parlano della purezza di un abito in bianco, della religiosità del sacramento e delle sue notti in bianco.

Tutto secondo un vocabolario rituale che riporta gli intimi colori dell’artista e le sue linee. Il rosso, il nero, i fiori, l’amore, il sesso, la morte. È al buio che si semina, è alla luce che si manifesta la vita. Si entra all’interno della sala in penombra e per prima cosa si respira e si ascolta. Si respira il profumo di lavanda emanato dalle camicie e dagli abiti tradizionali maschili sardi appesi dal soffitto, che formano una coltre di odore di pulito.

Attraversiamo questa coltre di camice ai cui sono legati dei campanacci da capra e le facciamo suonare, le muoviamo con la nostra energia e spingiamo una porta che dà su un mondo sensoriale. Ci laviamo via di dosso ogni incertezza, l’odore di lavanda ci purifica e così battezzati, proseguiamo.

Guidati dall’istinto cominciamo a fare un viaggio in un mondo sospeso per un istante sul tempo reale, dove ci si aspetta che nulla abbia una fine, dove non ci si aspetta la morte.

Ci si avvicina e ci sia allontana, ci si passa attraverso e ci si identifica. È una moltiplicazione di pensieri quelli che vediamo appesi alle pareti, i suoi disegni, i suoi diari protetti da incubatrici che noi come dei piccoli chirurghi dell’inconscio ci permettiamo di diagnosticare, infilandoci i guantini di lattice e con somma sacralità sfogliamo, indaghiamo, sondiamo, operiamo con la nostra mente, intervenendo su quella dell’artista, quasi a disturbare la sua parte più intima.

Si cammina poi sulle ombre che piccoli vestitini sospesi riflettono a terra. Lui lo chiama caos. Ma NULLA DIES SINE LINEA, a me è parso una bellissima trama ricucita dei disordinati pensieri di un vero artista. Un gomitolo di fantasie tragiche, funebri, violente, erotiche, provocanti, intense, che si srotola. 

Questa allestita in Triennale è una piccola mostra di un grande talento. In questo regno dell “Al-di-là” della sua creazione, la tradizione in un gesto apotropaico viene celebrata con quello che pare un rito funebre di un’antica Sardegna o di una Sardegna dai ricordi sepolti.

Si ripescano le memorie, si riprendono e si riarrangiano, ci si gioca, come quelle che sembrano pabassinas (tipico dolcetto sardo) e che invece avvicinandosi, ci si accorge che sono dentiere decorate al modo delle pabassinas, disposte in tavola come ogni buona importante ricorrenza sarda vuole. Simpatici dolciumi dell’amarezza del tempo.

Si sogna attraverso la tradizione che nella realtà dell’artista è rivisitata e riproposta nelle creazioni di moda che tutti conosciamo. La morte è solo il pretesto per determinare un cambiamento di orientamento. C’è il mondo dei morti e quello dei vivi.

Si volge qui lo sguardo all’interno, all’interno di sé, in fondo, al buio e ci si accorge che se ne deve uscire….così si è poi improvvisamente pervasi da una grande voglia di creazione. I gesti, le musiche e le danze, i riti, restano lontani, mentre le anime dei defunti ricordi cercano altrove nuova vita da un ritiro sotterraneo, dove la morte le aveva prima imprigionate. Da ciò nascono le emozioni e immagini nuove.

Da questo mondo sotterraneo nascono le creazioni di Antonio Marras. Una solidarietà con la propria terra che sta sì nell’autoconservazione, ma che con lui, coraggiosa, lascia contaminarsi per giungere a nuova vita, senza tradire. La fede fondata sui legami esistenti, quelli della terra/radice Sardegna, viene riposizionata e in una comunione sessuale dà nuova vita alle tradizioni. Un luogo questo tra i più delicati che l’artista poteva proporci, il suo yin, che ben conosciamo nella sua spettacolare forma yang più manifesta.

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