A Pozzuoli le detenute diventano
donne di Gerusalemme

A Pozzuoli le detenute diventano donne di Gerusalemme
di Donatella Trotta
Venerdì 14 Aprile 2017, 19:07
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La cognizione del dolore, nella Casa Circondariale Femminile di Pozzuoli, ha gli intensi volti multietnici di Blessing, Clementina, Daniela, Grace, Halima, Joyce, Loveth, Patiance Peace, Rosa, Teresa. Donne, prima ancora che detenute. E madri, anche se recluse. Figure femminili affiancate con grande sensibilità da una estesa comunità educante, molto attenta alla loro riabilitazione attraverso la cultura, strumento prezioso di consapevolezza. Ed è allora una «Via Crucis dell’Anima» quella che introduce simbolicamente, nel corridoio di accesso alla sala teatro del carcere, alla performance pasquale «…e al suo fianco le donne di Gerusalemme», messa in scena dall’Officina TeatroDentro con le appassionate allieve interne guidate, con straordinaria empatia, dalle docenti della scuola carceraria, in sinergia con la Direzione della Casa Circondariale, l’ufficio educatori, il comandante, gli ispettori, le ispettrici e gli agenti di Polizia Penitenziaria, insieme con il corso di istruzione degli adulti del Miur, Cpia Napoli Provincia 1, MOF e ragazze dell’art. 21.

Sulle due pareti del corridoio, le 14 Stazioni si fronteggiano nelle foto in bianco e nero di Fausta Minale, docente di matematica, che ha connotato così un lavoro collettivo di attualizzazione del percorso di Cristo verso il Golgota: la Via Crucis delle detenute si apre, icasticamente, con un grappolo perturbante di manette a segnare la perdita della libertà; prosegue con immagini simboliche di solitudine, fame, bisogno, povertà, fretta, degrado urbano, vecchiaia, emigrazione, globalizzazione, spreco, malattia, perdita della fede; e si chiude, in modo eloquente, con l’invisibilità: dietro il portone chiuso della Casa Circondariale femminile di Pozzuoli, arroccata su un panorama flegreo mozzafiato. «Le donne che seguiamo qui sono invisibili come i temi da loro identificati per le Stazioni di questa Via Crucis», spiega prima dello spettacolo Minale, soffermandosi in particolare su una foto che mostra una ragazza, di spalle, che guarda le vetrine di un “Compro oro” dove le masse di oggetti preziosi, «ricordi venduti per necessità, sembrano grondare oro come sangue».

Nella sala teatro, gremita di pubblico e di autorità (con i vertici della Casa Circondariale e Maurizio Cozzolino per gli educatori ci sono anche, tra gli altri, il vescovo di Pozzuoli monsignor Gennaro Pascarella, l’assessore alla Cultura del Comune puteolano, Alfonso Artiaco, i musicisti Gianni Lamagna e Lino Blandizzi), l’attesa per la rappresentazione è palpabile. Come la tensione di un lungo, duro e paziente lavoro corale che, dopo il tema della gioia trattato in una precedente commedia, affronta ora lo scoglio del dolore non per aggirarlo, come si tende abitualmente a fare, bensì per attraversarlo, con il supporto della tradizione letteraria - dalle Laudi dugentesche ai versi dolenti di una grande poetessa abitata dalla lucida follia -, unitamente al linguaggio dell’arte, della musica e della gestualità del teatro: magia alchemica e trasformante. E strumento non soltanto didattico, ma di aggregazione e incontro con se stessi e con gli altri. Lo confermano, nelle dense parole di presentazione, le docenti Angela Cicala e Maria D’Emilio, curatrici dell’adattamento dei testi e della ricerca musicale, affiancate da Olimpia Caccavale, Tiziana Lucignano, Fausta Minale e Patrizia Schiavone per l’elegante allestimento scenico, da Italo Monti e Fausta Apa per audio e luci, da Tiziana Lucignano per la grafica e da Raffaele Taurino per l’allestimento tecnico.
Il dolore, nel teatro in carcere a Pozzuoli, diventa così universale e insieme personalissimo, viene declinato come una meditazione corale, sfidato e guardato finalmente in faccia per sublimarlo, proprio come fecero Cristo e sua madre: divenuta, nella lacerazione della morte e della Rinascita, figlia di suo Figlio. I due piani di lettura sono rappresentati, in scena, dal Nunzio (la statuaria Rosa) e da Maria di Nazaret (la minuta Anna, capace di incarnare con straziante naturalezza i sentimenti e lamenti più terreni della sofferenza della madre di Dio), sullo sfondo potentemente evocativo di un grande Cristo-albero senza mani, il volto - per metà dello spettacolo - velato dal panneggio di un drappo bianco, prima di essere svelato, ferito, colpito, lacerato furiosamente dall’intervento sconvolgente dell’artista Vincenzo Aulitto che dà così corpo, anima e sangue alla Passione e morte del Nazareno: interpretato, nella Resurrezione, da un vibrante Maurizio Di Martino e da una delle “donne di Gerusalemme” contrappunto costante, dal nero della notte dell’anima fino al bianco della speranza risorta, di ogni sequenza della performance. Lo stilizzato Cristo albero, “accusato del grande reato d’amore”, si trasforma così con il suo sangue in legno che ha messo radici in tutto il mondo, “piantate nelle mani delle donne” che sanno accoglierle, anche nel nascosto ed espiatoriohortus conclusus della privazione della libertà, sapendone coltivare i semi della speranza che non muore mai ma che, come il grano della scena finale, solo morendo possono dare frutto.

L’evento non è solo un’intensa e coinvolgente lettura laica e drammatica della Passione e Resurrezione di Cristo, portata in scena con sorprendente bravura interpretativa, sapientemente echeggiata da testi di Jacopone da Todi (il Pianto de la Madonna de la Passione del figliolo Jesù Cristo), Alda Merini (brani scelti dal Poema della Croce), Dante Alighieri (Preghiera alla Vergine dal Canto XXXIII del Paradiso) e di Panagulis (Testamento), accompagnata da una altrettanto sapiente selezione musicale (con brani di Peter Gabriel, Mozart, del gruppo Latte e Miele e con canti tradizionali armeni) e impreziosita da un partecipe intervento silenzioso di Action Painting dell’artista puteolano Aulitto, al culmine della performance di grande impatto estetico, etico e persino teologico. È – soprattutto - un viaggio di liberazione interiore. Un’esplosione emotiva collettiva. Un cortocircuito tra dentro e fuori, fra identità e memorie soggettive, da un lato, e oggettiva reclusione, dall’altro, tra mondi interiori e mondo esterno che, nel contrasto stridente tra la bellezza preclusa del sole, del mare e della natura lasciata alle spalle, fuori delle mura, nella penombra dei cortili e delle stanze chiuse sprigiona, sotto le luci di scena e nel buio, energie inaspettate. Fondendo spettatori e interpreti, chi guarda e chi è guardato in un unico abbraccio, capace di trascendere l’attimo presente. E di attuare in concreto, grazie alla sintonia di un efficace lavoro di squadra fondato sulla forza debole della conoscenza, l’articolo 27 della Costituzione: laddove recita che «le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». Le “donne di Gerusalemme”, a Pozzuoli, l’hanno sperimentato sulla propria pelle, di colori diversi ma con cuori capaci di battere all’unisono, con la comunità educante che le ha accolte.
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