Sete di pace: ad Assisi il grande meeting interreligioso della Comunità di Sant'Egidio 30 anni dopo Giovanni Paolo II

Sete di pace: ad Assisi il grande meeting interreligioso della Comunità di Sant'Egidio 30 anni dopo Giovanni Paolo II
di Donatella Trotta
Domenica 18 Settembre 2016, 23:59
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Sete di pace. E fame di giustizia. Tese a coltivare un’«arte del dialogo» senza la quale non può esserci convivenza (né vita) possibile, in tempi di terrore globale in cui la «forza debole della preghiera» può fare da argine potente alle violente e mortifere derive di senso del mondo. A trent’anni dalla grande Giornata mondiale di preghiera interreligiosa promossa da papa Giovanni Paolo II il 27 ottobre 1986 ad Assisi, lo spirito profetico del pontefice santo torna ad aleggiare nella città di San Francesco: da oggi a martedì scenario dei lavori dell’annuale meeting internazionale «Sete di pace - Religioni e culture in dialogo», organizzato dalla Comunità di Sant’Egidio con la diocesi di Assisi e le Famiglie Francescane. Tre giorni intensissimi per un evento «non soltanto celebrativo», come precisa il presidente di Sant’Egidio Marco Impagliazzo, ma semmai «il racconto di una storia che ha portato i suoi frutti: dalla caduta del Muro di Berlino agli accordi di pace in varie zone del mondo, tra le quali il Mozambico».

Lo ha ribadito qualche giorno fa in un suo intervento anche il cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato vaticano, definendo l’iniziativa di 30 anni fa «un fatto senza precedenti», che «squarciò il muro del pessimismo e della rassegnazione in un mondo ancora diviso dalla cortina di ferro e dove la guerra, seppure fredda in molte situazioni, era considerata una compagna inevitabile della vita degli uomini. Convocando i leader delle grandi religioni mondiali ad Assisi - ha sottolineato il cardinale Parolin - per pregare per la pace Giovanni Paolo II si assunse la responsabilità di aprire una via». Quella verso un altro mondo possibile. La stessa strada che la Comunità di Sant’Egidio percorre con determinazione, da allora: rilanciando ogni anno, malgrado tutto, la profezia di san Giovanni Paolo, sulle orme peraltro del santo di Assisi «che nel 1219 incontrò il sultano», ricorda padre Enzo Fortunato, direttore della sala stampa del Sacro Convento di Assisi. 

Città umbra che non a caso si trasforma, in questi giorni e non solo, in simbolica capitale mondiale della pace con la presenza di 510 leader spirituali di nove religioni del mondo (e ben 26 delegazioni islamiche, dall’Egitto all’Indonesia), 12mila pellegrini, sei premi Nobel per la Pace, ambasciatori e ministri, accanto a 25 rifugiati (da Siria, Pakistan, Eritrea, Nigeria, Iran, Costa d’Avorio) giunti grazie ai corridoi umanitari di Sant’Egidio e all’assistenza, tra gli altri, della Caritas di Assisi. Un megaevento dalle molteplici implicazioni - spirituali e politiche - seguito da oltre 600 giornalisti accreditati, con la partecipazione di più di 1500 volontari e 200 relatori, laici e religiosi, credenti e non credenti, impegnati in 29 panel di lavori (sui temi di maggiore attualità: Europa, Africa, Medio Oriente, Islam, conflitti, lotta al terrorismo, fenomeno delle migrazioni e dell’integrazione, ecologia, povertà, ecumenismo) disseminati in 19 luoghi di incontro e preghiera.

«Il dialogo è l’intelligenza del vivere insieme: o vivremo insieme o insieme moriremo»: così Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio, ha sintetizzato la sfida della speranza giocata ad Assisi aprendo l’assemblea inaugurale, alla presenza tra gli altri del capo dello Stato Sergio Mattarella, che ha aggiunto: «Il dialogo tra le religioni, tra credenti e non credenti, il dialogo della cultura può molto, più di quanto sembri, perché lo scontro con la violenza estremista è anche uno scontro culturale: e quindi la cultura può prevalere sull’oscurantismo». E sarà non a caso papa Francesco, martedì, a chiudere la cerimonia conclusiva del meeting interreligioso, al quale non ha fatto mancare, oggi, il suo saluto da piazza San Pietro. «Sull’esempio di Francesco - ha detto all’Angelus il Pontefice -, uomo di fede e di mitezza, siamo tutti chiamati ad offrire al mondo una forte testimonianza del nostro impegno per la pace e la riconciliazione tra i popoli». Nei giorni scorsi, Francesco aveva anche mandato una lettera di apprezzamento e incoraggiamento alla neosindaca di Assisi, Stefania Proietti, che ha accolto commossa le parole del Papa di auspicio per una «società più accogliente, fraterna e a misura d’uomo», che tuteli «le fasce più deboli della popolazione con gesti concreti di condivisione e solidarietà».

E proprio al magistero di papa Francesco si è rifatto l’autorevole filosofo polacco della “modernità liquida”, Zygmunt Bauman, intervenendo ad Assisi, per descrivere la dimensione «cosmopolita» nella quale viviamo, in cui «ogni cosa ha un impatto sul pianeta, sul futuro e sui nipoti dei nostri nipoti», in quanto «siamo tutti dipendenti gli uni dagli altri». In tale interdipendenza, ha aggiunto Bauman, per «capire come integrarci senza rinunciare alla nosra identità» occorre allora seguire gli insegnamenti di papa Francesco, dallo studioso sintetizzati in tre consigli. Il primo: «promuovere una cultura del dialogo per ricostruire la tessitura della società. Imparare a rispettare lo straniero, il migrante, persone che vale la pena di ascoltare. Il secondo: considerare che «l’equa distribuzione dei frutti della terra e del lavoro non rappresentano una pura carità, ma un obbligo morale, passando dall’economia liquida che usa la corruzione ad una posizione che permetta l’accesso alla terra con il lavoro». E infine, «porre la cultura del dialogo al centro dell’educazione nelle nostre scuole, per dare strumenti per risolvere i conflitti in modo diverso da come siamo abituati a fare: un processo a lunghissimo termine, da perseguire con pazienza, coerenza e pianificazione, una rivoluzione culturale rispetto al mondo in cui si invecchia e si muore prima ancora di crescere».

Parole forti, di un laico «cuore pensante» a cui hanno fatto eco altre testimonianze, religiose e istituzionali, di grande impatto emotivo: come l’accoglienza del vescovo di Assisi, monsignor Domenico Sorrentino ai partecipanti al meeting, o l’intervento dell’arcivescovo di Rouen, monsignor Dominique Lebrun, che ha ricordato l’assassinio del parroco Jacques Hamel invitando a non considerare il suo martirio «come una grazia e non come una bandiera innalzata per combattere e condannare»; o come il contributo di Baleka Mbete, presidente dell’Assemblea nazionale sudafricana, che ha evocato la trasformazione del suo paese da «teatro di guerra e stato canaglia» a «nazione arcobaleno» che ha scelto «la via della giustizia di transizione, invece di una infinita caccia alle streghe e infinite punizioni». E mentre Faustin Archange Touadéra, presidente della Repubblica Centraficana, ha rammentato che nel suo Paese la pace è stata resa possibile «perché uomini e donne di fede non hanno accettato la logica dello scontro di religione», e grazie al lavoro della Comunità di Sant’Egidio, che durante gli anni più difficili della crisi, non hanno mai «smesso di parlare con le comunità religiose, i gruppi armati e i partiti politici, per ricordare a tutti i centrafricani che la loro storia è la convivenza pacifica tra fedi e culture diverse», Mohammed Sammak, consigliere politico del Gran Muftì del Libano, ha poi sottolineato - proprio nel giorno dell’ennesimo attentato a New York - che «affrontare il tema dell’estremismo religioso è un dovere innanzitutto dei musulmani», che hanno il dovere di liberare la loro religione dal “dirottamento” cui il fanatismo di estremisti ha sottoposto l’Islam usandolo come «strumento di vendetta, movimento totalitario in nome della religione».

Già. Trent’anni fa, Giovanni Paolo II indicò alle religioni «l’intelligenza del dialogo» rendendo, come ha affermato Andrea Riccardi, «la sua profezia storia», con un’intuizione a un tempo semplice e profonda: «contrastare l’asservimento di una fede alla guerra e al terrorismo», riuscendo a stare «gli uni accanto agli altri». In tanti luoghi del mondo. Con un comune e condiviso bisogno di pregare per la pace, tutti, «ciascuno secondo la propria identità e nella ricerca della verità». Uno spirito rilanciato da Assisi, in questi giorni e non solo, «per continuare ad incontrarsi, perché nell’incontro c’è una "liberazione" da tanti piccoli mondi particolari», anche «in un tempo complesso e frammentato, con le sue sfide, l’avvicinamento dei popoli, ma anche le nuove paure», ha concluso Riccardi.

Al quale ha fatto eco la testimonianza del Patriarca Ecumenico Bartolomeo I di Costantinopoli, che lunedì 19 settembre sarà insignito della Laurea honoris causa in Relazioni internazionali dell’Università di Perugia e che martedì interverrà nella cerimonia conclusiva alla presenza di Papa Francesco, che accompagnò lo scorso aprile nella visita delpontefice ai profughi sull’isola di Lesbo. «Costruire la pace - ha ammonito Bartolomeo I - è una questione di scelta individuale e istituzionale; richiede una conversione interiore e un cambiamento nella politica e nei comportamenti, dal locale al globale». La via? Per il Patriarca è «guardare l’uno all’altro con amore e compassione, negli occhi». E la esemplifica richiamando un suo illustre predecessore, il Patriarca Atenagora, noto per l’abbraccio con Papa Paolo VI a Gerusalemme nel 1964. «Lo incontrai da giovane – ricorda Bartolomeo – era conosciuto per risolvere i conflitti invitando le parti coinvolte a incontrarsi. Diceva loro: “Venite, guardiamoci negli occhi e vediamo cosa abbiamo da dirci”. Aveva ben capito che la pace è qualcosa di personale!».

Non è mancata, nella prima intensa giornata di lavori, l’attenzione alle popolazioni colpite dal terremoto in Italia Centrale: espressa, da un lato, da un lato, da monsignor Domenico Pompili, vescovo di Rieti, che ha portato ad Assisi la voce delle vittime chiedendo di «fare ripartire le lancette fermate dal sisma». Dall’altro lato, lo stesso patriarca di Costantinopoli, il quale, esprimendo «il lutto del mondo intero» per la tragedia, ha indicato la salvaguardia dell’ambiente come uno dei temi del dialogo interreligioso: «Il modo in cui l’uomo si comporta nei confronti del Creato ha un impatto diretto sul modo in cui si comporta verso le altre persone. Qualunque attività ecologica - ha aggiunto - sarà giudicata dalle conseguenze che avrà per la vita dei poveri. Il problema dell’inquinamento è collegato a quello della povertà».
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