Allarme Istat: al Sud Italia diminuisce l’aspettativa di vita

Allarme Istat: al Sud Italia diminuisce l’aspettativa di vita
di Francesco Pacifico
Venerdì 8 Aprile 2016, 08:34
4 Minuti di Lettura
Al Sud si cammina più a piedi e più ampio è il numero di autobus. C’è maggiore accoglienza verso i migranti (profughi e non), ci si sposa (in chiesa) con facilità e oltre un quinto del territorio è ancora immacolato. Ma al Sud l’indice dell’aspettativa di vita è inferiore di un terzo rispetto a quello del Nord (102,8 contro 159,8 punti). Non a caso, sono frequentissimi i casi di obesità, la malattia dei Paesi maturi e degredati. Soprattutto il Pil procapite è la meta tra i due lati del Belpaese: da Roma in giù la ricchezza media è di 16.761 euro, verso Nord si sale a 30.821 euro.

La versione 2016 di «NoiItalia» dell’Istat – la selezione dei principali indicatori diffusi dall’istituto nel corso dell’anno – finisce per marcare la distanza tra il Sud povero e il Nord ricco. Che è diventata abissale negli anni della crisi. E forse non poteva essere diversamente se, come ricorda l’economista Michele Salvati, «la notizia oggi è che nell’ultima parte della crisi a fermarsi è stato soprattutto il Nord. Come avrebbe potuto allora il Meridione crescere in queste condizioni?».
Tra le condizioni negative c’è soprattutto il deficit di investimenti: crollati al Nord nell’ultimo quinquennio del 30 per cento e del 50 per cento al Sud. Sul primo versante la spesa procapite è di 9,431 euro, sull’altro 8,795. Per la cronaca, dieci anni prima la differenza era di mille euro. Ma c’è da poco stare allegri, perché – come ricorda Salvati – le due aree del Belpaese «hanno corso quasi alla stessa velocità soltanto alla fine degli anni del Boom, quando la crescita era del 5 per cento».

Non deve consolare che le amministrazioni meridionali spendano a livello procapite in istruzione di più rispetto a quanto avviene nel Nord e che la differenza sulla sanità sia di qualche euro. Nota Gilberto Muraro, a capo della prima spending review italiana (la commissione voluta nel 2006 da Tommaso Padoa Schioppa): «La spesa in più in questi servizi è drogata dal costo del lavoro». La scuola o gli ospedali restano «ammortizzatori sociali». «Il risultato», continua l’economista, «è che i servizi non sono efficaci e non ci sono risorse sufficienti per acquistare beni, servizi e tecnologie». Infatti al Sud ci sono il 4,4 per cento in meno di laureati in materie scientifiche e i posti letto sono minori, nonostante stiamo parlando dell’area più popolosa del Paese. Dagli anni del boom in poi il Mezzogiorno è stato considerato soprattutto il mercato di sfogo dei prodotti realizzati nelle imprese del Triangolo industriale, dopo del Triveneto. «Consumi», nota Emiliano Brancaccio, ordinario di Economia politica all’università del Sannio, «che sono stati finanziati dall’intervento pubblico, ma che hanno garantito a una parte del Paese un monopolio commerciale e hanno impedito all’altra di sviluppare un proprio sistema esportativo».

A quasi 70 anni dalla fondazione dalla Cassa del Mezzogiorno le cose non sono cambiate. Il Sud (con un indice Pil di 101,7 punti) consuma più di quanto guadagna (e si indebita), ma soprattutto spende in base alle sue disponibilità più del Nord Ovest (73,6). Contemporaneamente quest’area contribuisce alle esportazioni con il 40,2 per cento del totale, mentre il Mezzogiorno non va oltre il 10,2 per cento. Francesco Daveri, ordinario di politica economica alla Cattolica di Piacenza, dice che «questi numeri andrebbero scremati del sommerso, che è molto diffuso. E lo dico in chiave metodologica, perché soltanto così si spiegano i consumi rispetto a redditi tanto bassi. Ma più in generale il Sud resta l’area delle grandi opportunità non sfruttate. Renzi ha ragione quando dice a Bagnoli che la soluzione non è l’assistenzialismo del passato. Usiamo i soldi pubblici, ma leghiamoli a un’idea: alle infrastrutture come al rafforzamento delle punte di eccellenza esistenti, come la sartoria napoletana o la meccatronica pugliese». Ma per farlo servono scuole tecniche e un riequilibrio del costo del lavoro. «Non chiamiamole gabbie salariali ma accordi come quelli di Melfi, incentivando la contrattazione locale, hanno evitato la nascita di cattedrali nel deserto». Per Brancaccio «il contratto nazionale non viene più applicato al Sud». Ma «se si vuole sviluppare un sistema industriale in aree depresse bisogna anche difenderle dalla concorrenza dei Paesi più agguerriti. È un tabù, ma l’Ue dall’inizio della crisi ha istituito 800 aree protezionistiche con giganti come Russia, Cina e persino Usa».
© RIPRODUZIONE RISERVATA