Il problema non sta solo nel clima che si sta creando, con la decisa recente presa di posizione del presidente francese Francois Hollande («La signora May vuole un Brexit duro? I negoziati saranno duri», ha avvertito), ma soprattutto in una questione tecnica, e cioè l'incertezza sul mantenimento o meno dei cosiddetti "diritti di passaporto" per i membri del mercato unico, che finora hanno permesso alle banche basate nel Regno Unito di offrire servizi finanziari a società e persone nell'intera Unione europea senza alcun ostacolo. Se il segretario alla Brexit, David Davis, la scorsa settimana ha tentato di rassicurare il settore affermando di essere «determinato a ottenere il migliore accordo possibile per le banche», la premier Theresa May non sarebbe propensa ad accordare uno status speciale per la City di Londra (magari attraverso il versamento di indennizzi all'Ue proprio per mantenere i diritti di passaporto), preferendo mantenere la priorità dei controlli alla libertà di movimento degli stranieri.
Stando a calcoli della società di consulenza Oliver Wyman citata dall'agenzia Bloomberg, imporre restrizioni all'attività finanziaria porterebbe a una perdita dei ricavi per le società britanniche fino a 40 miliardi di sterline (circa 45 miliardi di euro) e mettere in pericolo 70mila posti di lavoro.
Ma non solo: secondo Browne rischi esistono anche per il resto dell'Europa, perché le banche basate nel Regno Unito «mantengono a galla finanziariamente il continente» con prestiti per 1.100 miliardi di sterline: il rubinetto potrebbe quindi chiudersi. Browne, insomma, ha messo in guardia i politici britannici ed europei che sembrano preferire obiettivi "dannosi" per il commercio internazionale: devono rendersi conto, ha avvertito, che «innalzare barriere al commercio nei servizi finanziari oltremanica ci danneggerà tutti».