Resuscitare l’articolo 18, il nuovo referendum che dividerà la sinistra

Resuscitare l’articolo 18, il nuovo referendum che dividerà la sinistra
di Nando Santonastaso
Domenica 11 Dicembre 2016, 09:50
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Da un quesito all’altro, la stagione dei referendum in Italia non conosce sosta. Neanche il tempo di metabolizzare la vittoria dei No alle modifiche della Costituzione (e pochi mesi prima il mancato quorum per la consultazione sulle trivellazioni marittime), e già si profila all’orizzonte il più che probabile referendum promosso dalla Cgil sul jobs act.
E più in particolare sul ripristino dell’articolo 18 in materia di licenziamenti che la riforma del mercato del lavoro, la più importante tra quelle varate dall’ormai ex governo Renzi (e anche la più apprezzata dai partner europei) aveva eliminato rispondendo all’esigenza di rendere finalmente meno rigido il mercato del lavoro in entrata e in uscita. Quello sull’articolo 18 peraltro è solo uno dei tre quesiti referendari proposti dalla Confederazione guidata da Susanna Camusso e sostenuti anche da Sinistra italiana: gli altri due riguardano l’abrogazione dei famigerati voucher, purtroppo ancora così numerosi in Italia (e non solo al Sud) da impedire qualsiasi processo di trasparenza oggettiva nelle politiche attive dell’occupazione; e una norma del nuovo codice degli appalti, già al centro di forti contestazioni anche da parte dei costruttori, ovvero delle disposizioni che limitano la responsabilità solidale in materia di appalti, stabilendo in caso di esito positivo (per i proponenti) «la responsabilità legale per l’ente appaltante in caso di violazioni nei confronti dei lavoratori della ditta appaltatrice». 

Che si andrà a votare sui tre punti sembra ormai scontato: dopo la raccolta di ben 3 milioni e 300mila firme da parte dei promotori nel giro di poco meno di un anno (sono state depositate a fine luglio), l’iter previsto dalla legge si sta completando. La Corte di Cassazione ha dato l’ok alla legittimità delle firme e ora tocca alla Corte Costituzionale l’ultimo, decisivo via libera, atteso per la seconda decade di gennaio. Da quel momento scatteranno i sei mesi previsti dalle norme entro i quali bisognerà indire il referendum, ovvero fissare la data: a occhio e croce potrebbe essere giugno che peraltro rischia di diventare un mese cruciale anche sul piano strettamente politico, con il possibile ritorno alle urne degli italiani qualora l’esperienza dell’annunciato governo Gentiloni finisse prima della scadenza naturale della legislatura.

Dunque prepariamoci ad un altro scontro tra Sì e No il cui esito, proprio alla luce del risultato del referendum costituzionale, potrebbe essere altrettanto divisorio per l’opinione pubblica e la politica italiane, già profondamente lacerate quando la riforma del lavoro è stata votata in Parlamento (e approvata peraltro a larga maggioranza). E che tra i due appuntamenti ci sia una streta correlazione lo dimostrano le parole con cui uno dei leader del fronte del No, Stefano Rodotà, poche ore dopo la vittoria anti-riforme ha parlato di un «nuovo percorso» che dovrebbe garantire «un ben più alto protagonismo dei cittadini che hanno dimostrato di voler esercitare le loro prerogative in proprio».
Giudizi e prospettive a parte, un dato non va trascurato pur nella legittimità della consultazione (se, come tutto lascia intendere, ci sarà). L’obiettivo dei promotori del referendum, in particolare per ciò che concerne le norme anti-licenziamenti, appare a tutti gli effetti un salto all’indietro: perché tornare all’articolo 18 nelle aziende sopra i 5 dipendenti (è il succo della proposta) vuol dire di fatto ripristinare un sistema di «vecchie» protezioni contro il quale per anni e invano si erano battuti non solo le imprese ma anche schieramenti politici di centrosinistra e centrodestra consapevoli dell’impatto anacronistico di certe norme rispetto a più moderne dinamiche del lavoro, in entrata e in uscita come detto.

Per la verità in Italia l’effetto del Jobs act è ancora modesto rispetto alle attese anche perché certe riforme complesse e per molti aspetti delicate, come questa, hanno bisogno di tempo per andare a regìme. E con una crisi economica che ha lasciato il segno e continua a frenare la fiducia di aziende e consumatori la strada è sicuramente più impervia. Non è però un caso che in base agli ultimi dati diffusi dall’Istat in materia di licenziamenti, ci sono numeri che fanno riflettere: se nel 2016 i licenziamenti sono stati 46.255 (nei primi due trimestri), nello stesso periodo di riferimento erano stati appena 36.048 nel 2015 e 35.235 nel 2014. In altre parole l’incremento di licenziamenti tra il 2015 ed il 2016 è stato del 28% mentre sale al 31% se prendiamo in considerazione il periodo 2014-2016.

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