Walter Siti, don Milani e il rischio di «Bruciare tutto»

Walter Siti, don Milani e il rischio di «Bruciare tutto»
di Fabrizio Coscia
Sabato 22 Aprile 2017, 16:28
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Il rischio maggiore in cui può incorrere a questo punto il nuovo libro di Walter Siti, Bruciare tutto (Rizzoli, pagg. 372, euro 20), è quello di essere riduttivamente semplificato dalle stesse polemiche che prima ancora d'essere letto ha innescato sulla stampa (e sui social con la consueta virulenza tra pro e contro), per il modo in cui viene rappresentato il tema della pedofilia.

E in tal senso le ultime dichiarazioni dello scrittore modenese sui motivi che lo hanno spinto a dedicare il libro a don Lorenzo Milani, alla sua «ombra ferita e forte», per la presunta pedofilia repressa del prete di Barbiana, non hanno contribuito a rasserenare il clima, provocando reazioni indignate pressoché unanimi.

Ma che libro è, infine, Bruciare tutto? La prima sorpresa che abbiamo leggendolo è che per quasi metà romanzo ci troviamo più nei paraggi di un casto e problematico Bernanos che di uno «scandaloso» Genet, come ci si sarebbe aspettati. Il protagonista, don Leo, è un giovane sacerdote di una parrocchia milanese, intellettuale progressista e assediato da misteriosi sensi di colpa (che cerca di sopire perfino con il cilicio), lettore di Clemente Rebora, animato da una fede tormentata e fiero oppositore di «un cristianesimo senza lische, a pronta digeribilità»: i suoi sermoni hanno qualcosa della furia luterana e soprattutto il sacerdote è convinto che l'Avversario sia «strettamente implicato con Dio», un Dio con cui il prete ha ingaggiato un estenuante confronto, dietro il quale si cela il segreto di una «biografia occultamente sanguinosa».

Di quale segreto si tratti, Siti lo rivela quasi preparando il lettore alla traumatica scoperta, in uno dei suoi rari interventi diretti (la seconda sorpresa riservata al lettore è, infatti, che per la prima volta in un libro di Walter Siti non compare mai il personaggio-Walter Siti, e l'autore è presente solo nelle note disseminate nel testo, o in qualche paragrafo in corsivo): don Leo è attratto dai ragazzini e attorno ai vent'anni, prima di farsi prete, ha abusato di un undicenne. Da allora ha evitato qualsiasi contatto fisico, represso qualsiasi stimolo, votandosi a una castità punitiva, ma non si è mai liberato dalle sue fantasie ossessive.

Finché non incontra sul cammino dapprima la sua vittima cresciuta e poi il biondo Andrea, un ragazzino «nevrastenico», trascurato dai genitori, che con la sua domanda d'amore farà crollare quel muro di difesa e contrizione costruito negli anni, con conseguenze tragiche. Va detto subito che la dedica a don Milani (al quale sarebbe ispirato il personaggio di don Leo), è da rubricare come un infelice passo falso dell'autore, e tuttavia sarebbe fuorviante affermare che questo libro giustifichi la pedofilia, come pure è stato scritto.

C'è semmai un uso del tema narrativamente strumentale, nel senso che se da un lato come atto la pedofilia è condannata senza alcuna ambiguità - agghiaccianti le parole del vecchio prete che accoglie la confessione del pentito Leo - come «stortura» del pensiero è utilizzata per sondare le tracce di umano che possono nascondersi - dostoevskianamente - nel fondo dell'abiezione (il riferimento è, naturalmente, ai «Demoni»), nonché il legame tra religione e perversione (in senso lacaniano, come abdicazione alla Legge superiore).

Per questo motivo scambiare, come è stato fatto, la considerazione finale di don Leo sull'atto pedofilo come atto potenzialmente salvifico per un'aberrante complicità da parte dell'autore, è sbagliato, trattandosi, com'è evidente, di un tragico double mind tutto interno al personaggio-Leo con il suo Dio. In fondo, il vero orrore che interessa raccontare a Siti non è quello che alberga nell'anima del prete, ma quello che emerge tutto attorno a lui, nello «scenario progressista» di una Milano asserragliata nelle «torri dell'opulenza», popolata da broker finanziari, industriali senza scrupoli, artiste fallire riciclate alla politica, su cui incombe la fallica torre dell'Unicredit, totem di una pervasività finanziaria che usa il cinismo come arma di sopraffazione.

È qui il nucleo apocalittico di un romanzo irrisolto e intenso, vitale e difficile, dove non è prevista salvezza se non nell'olocausto, nell'offerta sacrificale a un «Dio impossibile», o nella fuga (esotica e a tempo determinato) che chiude il libro, con un'amarissima ironia.
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