«Napoli, un commerciante su due
paga il pizzo alla camorra»

«Napoli, un commerciante su due paga il pizzo alla camorra»
di Pietro Treccagnoli
Mercoledì 13 Settembre 2017, 16:41 - Ultimo agg. 14 Settembre, 10:15
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Luigi Cuomo è il presidente di «S.O.S. imprese» che si occupa di vicende di racket e di usura. Il suo è un osservatorio privilegiato per capire quanto il pizzo pesi sull’economia di Napoli. È lui è subito netto e chiaro: «Almeno un commerciante su due paga, in un modo o nell’altro».

Da quanto si legge c’è persino una recrudescenza. Le risulta?
«Sì. Il fenomeno ha ripreso virulenza perché i cosiddetti clan camorristici emergenti, in particolari quelli guidati da giovanissimi boss, hanno la necessità di affermarsi sul territorio, non tanto a danno dei commercianti, ma per dimostrare agli altri clan il proprio potere. Per questo arrivano a taglieggiare persino gli ambulanti stranieri».

Non è più solo uno strumento per fare cassa, quindi?
«Rimane anche quello. Il pizzo consente di avere denaro cash. Ma è anche uno strumento per marcare il proprio quartiere e soprattutto dimostrare il proprio ruolo dominante». 

Rispetto al passato c’è qualche differenza?
«Le attuali forme di estorsioni sono più violente, rozze, e fanno più paura, perché si passa subito alle vie di fatto. Picchiano selvaggiamente i commercianti e questo ha portato a una maggiore propensione alla denuncia. Anche perché gli sportelli antiracket rappresentano sempre più un’opportunità per uscire dal tunnel».

Però i commercianti vittime di estorsione, quando viene chiesto se pagano il pizzo, anche dopo un raid contro di loro, rispondono sempre di no. Perché?
«È quello che dicono a voi giornalisti: insistono a ripetere che non hanno mai avuto richieste. Ma noi sappiamo che magari già il giorno prima erano stati dai carabinieri a firmare la denuncia. O se non l’avevano fatto lo stavano facendo».

Perché negano, allora?
«È la risposta di rito. In realtà il livello di collaborazione e di denuncia è cresciuto».

In quali quartieri di Napoli è più forte l’estorsione?
«Nel centro storico e al Vomero, dove purtroppo viene considerata un’attività quasi naturale. A Secondigliano e Scampia, invece, quando lo spaccio di droga era predominante negli affari illeciti, quasi non si facevano estorsioni. C’è poi un altro fenomeno molto forte ed è quello della penetrazione dei clan nell’attività economica vera e propria. Per un periodo niente pizzo, perché i negozi i camorristi se li pigliavano e basta. Li aprivano loro».

Quanti commercianti napoletani sottostanno al racket?
«Sono dati che cambiano da quartiere a quartiere, ma, al netto dei negozi che già appartengono alla camorra, vere lavanderie di denaro sporco, presidi per controllare il territorio, possiamo tranquillamente dire che paga almeno il cinquanta per cento, con modalità, periodicità, intensità e tariffe diverse. E in provincia sono molti di più».

Se c’è recrudescenza significa che c’è stato un periodo di rallentamento?
«Qualche anno fa si è verificata una leggera diminuzione del fenomeno. I clan, che erano alle prese con affari ben più redditizi, hanno cercato di crearsi una sorta di “complicità” con i commercianti».

Addirittura? In che modo?
«Facevano richieste bassissime, quasi ridicole, tanto che diventava faticoso convincere il commerciante a denunciare. I clan così mantenevano il punto, il rapporto. Era il classico controllo del territorio, per costringere a riconoscere la propria autorità e imporre magari un’assunzione o l’approvvigionamento a un particolare fornitore».

Quanti commercianti denunciano?
«Adesso almeno dieci su cento. In passato appena uno su cento. In campo sono stati messi strumenti poco noti e che spesso non possono essere pubblicizzati, ma che si stanno dimostrando efficaci».

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