Calenda: «Industria 4.0, cambio di passo per rilanciare il Sud»

Calenda: «Industria 4.0, cambio di passo per rilanciare il Sud»
di Nando Santonastaso
Sabato 25 Febbraio 2017, 08:41 - Ultimo agg. 1 Marzo, 15:57
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Ministro Calenda, ci spiega perché Industria 4.0 è così indispensabile all’Italia?
«L’Italia ha una tradizione e una storica vocazione industriale: siamo il secondo Paese manifatturiero in Europa e le nostre imprese, con la loro capacità di produrre ricchezza e occupazione, rappresentano da sempre il motore della crescita e dell’occupazione italiana. Nonostante questo, la politica industriale è rimasta ai margini dell’agenda dei Governi nazionali per quasi vent’anni: il fatto di non aver lavorato con coerenza sui fattori di competitività è stato uno degli elementi che ha frenato la crescita economica del Paese». Il Piano Industria 4.0 vuole riportare l’industria al centro delle priorità. Il Piano offre a tutte le aziende strumenti concreti per cogliere le opportunità legate alla quarta rivoluzione industriale: efficientamento dei processi, riduzione dei costi, miglioramento della produttività, ripensamento dei prodotti, di nuovi servizi, di migliore capacità di reagire in breve tempo alle esigenze del mercato, di cambiamento nelle aree e nei modelli di business».

Lei ha detto più volte che questa scelta è indispensabile al futuro dell’industria italiana: perché è così drastico?
«Incrementare i ricavi, intercettare nuovi mercati, soddisfare nuovi bisogni, avere maggiore valore aggiunto: questi i risultati per chi sarà in grado di cogliere i benefici di Industria 4.0. I nostri principali competitor a livello internazionale stanno operando in questa logica e, se vogliamo continuare a giocare un ruolo di rilievo nello scacchiere mondiale, non possiamo perdere questa occasione. L’industria italiana deve scegliere se cavalcare questa rivoluzione oppure essere travolta. Io credo che lo Stato debba fare la propria parte per aiutare e sostenere gli imprenditori, ma l’ultima parola è inevitabilmente loro: è questo che intendo quando dico che il Governo vuole siglare un patto col mondo delle imprese. Sono però le imprese a doverne approfittare. È questa la loro insostituibile funzione sociale». 

Ha seguito un modello europeo o internazionale di riferimento prima di formulare il progetto?
«Abbiamo esaminato quanto è stato fatto in altri Paesi - Germania soprattutto - che per varie ragioni ci hanno preceduto. Tuttavia il modello che abbiamo disegnato è tagliato su misura sul sistema produttivo italiano, caratterizzato da una presenza di PMI che non ha eguali in Europa: le misure sono organiche, complementari e tutte tese a favorire gli investimenti per l’innovazione e per la competitività senza discriminazioni di dimensione e settore economico. Abbiamo anche seguito un approccio che dovrebbe essere scontato, ma che invece ha rappresentato un significativo punto di rottura con il passato: non ho azzerato quanto di buono era stato fatto finora, ma ho valutato le misure preesistenti, valorizzando e rafforzando in chiave industria 4.0 quelle di maggiore successo. Il risultato finale è un Piano con pochi confronti a livello europeo per quantità di risorse e potenziale platea di beneficiari».
Ma l’innovazione non rischia di frenare l’inventiva e l’artigianalità che hanno reso famoso il made in Italy nel mondo?
«Al contrario: i prodotti del Made in Italy, simbolo di qualità e secondo brand più riconosciuto al mondo, sono quelli che potranno maggiormente beneficiare della trasformazione digitale del manifatturiero. Il successo del Made in Italy deriva proprio dall’abilità delle nostre imprese di coniugare tradizione e innovazione. Questa volontà di guardare avanti e assumersi dei rischi non deve interrompersi: anzi, dobbiamo sostenerla e incoraggiarla. La possibilità di industrializzare produzioni di piccola serie e di natura artigianale consentirà di superare i tradizionali limiti della piccola dimensione e delle ridotte economie di scala, rendendo possibile il necessario consolidamento all’interno delle global value chain per presidiare nicchie di mercato sempre più globali. È un’opportunità da cogliere per intercettare la crescente domanda globale di prodotti di alta qualità».

Industria 4.0 è anche una mentalità da cambiare: al Sud pensa che sia più difficile?
«Le nostre misure hanno un carattere trasversale: il Piano investe tutti gli aspetti del ciclo di vita delle imprese, offrendo un supporto agli investimenti, alla digitalizzazione dei processi produttivi, alla valorizzazione della produttività dei lavoratori, alla formazione di competenze adeguate e allo sviluppo di nuovi prodotti e processi. È evidente che in questo percorso di supporto alla trasformazione in chiave digitale del nostro tessuto produttivo, il Sud rappresenta una sfida ancora più impegnativa. Gli imprenditori del Mezzogiorno devono tuttavia avere la consapevolezza che si tratta di un’occasione unica, forse irripetibile, per colmare il divario di produttività e competitività con il resto del Paese. Penso che, anche in questo caso, non dobbiamo ripetere gli errori del passato: non dobbiamo illuderci che si possa stimolare la crescita dettando noi, dall’alto, specializzazioni e investimenti. In un certo senso, si può dire che il Sud vive in modo più profondo e cronico tutti i problemi che oggi affliggono l’Italia in generale: di conseguenza, le politiche adottate per risolvere questi problemi avranno effetti ancora più forti proprio al Sud». 

Si può conciliare l’innovazione con le esigenze di lavoro dei giovani che non riescono ancora ad essere una priorità assoluta per ogni governo al di là degli annunci?
«L’innovazione è la leva indispensabile soprattutto per i giovani: si dice che oltre la metà dei bambini che oggi frequentano le elementari, da adulto svolgerà un lavoro che oggi non esiste. Questa è la realtà e Industria 4.0, essendo un Piano nazionale, ha cercato di occuparsi anche della formazione per preparare i giovani al lavoro del prossimo domani. In questo senso, nuovi percorsi Universitari, Istituti Tecnici Superiori dedicati, dottorati dedicati, Competence center saranno tutti veicoli che permetteranno la diffusione di una nuova cultura indispensabile ad affrontare non il futuro, ma il presente». 

Le risorse: quanto pensa che dovrebbe costare un programma complessivo di innovazione del Paese? E in quanto tempo si potrebbero trarre i primi bilanci?
«A differenza di altri piani internazionali che possono concentrarsi su poche filiere o specifici big player, uno degli obiettivi più ambiziosi del nostro Piano è legato alla natura stessa del tessuto produttivo italiano e alla necessità di rendere quanto più possibile sistemico il percorso di trasformazione e crescita in chiave 4.0 delle nostre imprese. Anche per questo il Piano è molto articolato e le prime misure hanno già trovato attuazione nella legge di Bilancio 2017. Si tratta di un pacchetto di agevolazioni fiscali che favoriscono i processi di ammodernamento dei sistemi produttivi e supportano percorsi virtuosi di ricerca, sviluppo e innovazione, anche attraverso modelli di open innovation. Ogni intervento prevede una specifica dotazione a cui corrispondono ben determinati obiettivi, declinati in termini di indicatori quantitativi monitorabili da tutti in una logica di piena trasparenza. Un’altra peculiarità sta negli automatismi che governano la maggior parte delle defiscalizzazioni: nessuno dovrà compilare moduli burocratici o farsi giudicare da una commissione ministeriale. Semplicemente, chi investe e innova, pagherà meno tasse. Abbiamo allocato per queste prime misure quasi 20 miliardi di euro ma è ancora troppo presto per capire quali effetti produrranno. Il buon esito del Piano è legato anche alla capacità di coinvolgimento delle imprese, alla continuità che riusciremo a dare non tanto alle singole misure quanto all’organicità di tutto l’impianto». 

La globalizzazione ha lasciato tanti nodi scoperti: è stato sbagliato il racconto che di essa si è fatto o qualcosa da rivedere c’è?
«Come tutte le grandi trasformazioni epocali, la globalizzazione è un processo che ha avuto aspetti positivi e aspetti negativi: un miliardo di persone è venuta fuori dalla povertà assoluta, ma allo stesso tempo si è creato un divario nelle nostre società con un maggior danno per la classe media. Dobbiamo comunque essere consapevoli che si tratta di un fenomeno che sarebbe impossibile ignorare: deve invece essere governato al meglio delle nostre possibilità. Non dobbiamo, insomma, combattere battaglie di retroguardia: dobbiamo piuttosto chiederci quali politiche, nazionali e sovranazionali, servano a catturare i benefici riducendo e rendendo sostenibili i costi di aggiustamento. E, contemporaneamente, dobbiamo adottare strumenti adeguati per contrastare la concorrenza sleale: come sempre, ai comportamenti scorretti non si risponde alzando dei muri, ma definendo un quadro di regole equilibrate e condivise. Per questo sono molto soddisfatto del voto del Parlamento europeo sull’Accordo Ceta con il Canada della scorsa settimana. Non dobbiamo farci trascinare dal malcontento e dai facili populismi che attecchiscono fortemente, ma dobbiamo riappropriarci del timone della globalizzazione.

In parole povere: la modernità e l’innovazione renderanno davvero il mondo migliore?
«Questo è il mio augurio anche perché oggi non possiamo più voltarci indietro. Chi ne resterà escluso rischia di essere tagliato fuori, in un mondo che tenderà sempre più a polarizzarsi tra vincenti e perdenti. L’Italia, ne sono certo, ha tutti i mezzi e gli strumenti per affrontare e uscire vincente da questa che è la più difficile e importante sfida del presente e dei prossimi anni».
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