L'innovazione, la luna
e la paura nel mezzo

L'innovazione, la luna e la paura nel mezzo
di ​Antonio Pescapè*
Domenica 25 Giugno 2017, 21:12
6 Minuti di Lettura
Mi accadeva già prima, ma adesso accade con una regolarità che definire scientifica è poco. Da quando, dalle pagine di questo giornale, abbiamo cominciato a raccontare di ricerca, di innovazione e di futuro ricevo sempre più spesso domande che - più o meno - suonano così: ma tutta questa innovazione tecnologica non ci farà male? ma siamo pronti? ma in che modo riusciremo a difendere i nostri posti di lavoro da una tecnologia che pian piano ci rende inutili? in che modo riusciremo a difendere le nostre identità e le nostre tradizioni?

Insomma, domande mica da poco. Domande a cui rispondere è molto complicato. Ad avercele le risposte corrette. Ma da una parte si deve pure iniziare. E io comincio, come sempre faccio, da quello che vedo. E sapete cosa vedo io dietro ognuna di queste domande e dentro gli occhi, quando ciò accade dal vivo, di chi me le fa? 
Io vedo la paura. Si, la paura. Ed è assolutamente normale. 

Normale perché quando si parla di innovazione si parla sempre anche di paura. Senza non sarebbe (vera) innovazione. Paura di ciò che non si conosce e capisce. Paura di ciò che, usato in modo sbagliato o usato senza consapevolezza, può fare danni enormi. Perché come diceva Isaac Asimov Qualsiasi innovazione tecnologica può essere pericolosa: il fuoco lo è stato fin dal principio, e il linguaggio ancor di più; si può dire che entrambi siano ancora pericolosi al giorno d'oggi, ma nessun uomo potrebbe dirsi tale senza il fuoco e senza la parola. 

Oggi, se al fuoco e alla parola sostituiamo le tecnologie che hanno pervaso la nostra vita, la sensazione che proviamo è ancora quella della paura: paura di sentirci soli in mezzo a milioni di persone (a cui siamo perennemente connessi) e informazioni (che riceviamo continuamente) senza più vincoli di tempo e di spazio; paura di sentirci incapaci di dominare il cambiamento; paura che questo cambiamento ci travolga e trasformi la società da uomo-centrica a tecnlogico-centrica. E se c'è una cosa che rende le parole di Asimov oggi ancora più vere è il concetto di tempo. Oggi tutto ciò che accade, accade più rapidamente. Le scale temporali in gioco si sono incredibilmente ridotte. L'innovazione guidata dalla digitalizzazione e dall'automazione ha, come nel caso di innovazioni del passato, impatti molto forti sulla società ma stavolta i tempi sono molto più brevi. E' la natura immateriale del digitale a forzare questi tempi. E noi, a questi tempi, non siamo pronti. 

Perché il punto non è tanto se la tecnologia fa male o no. Il punto è se siamo o meno pronti a metterla a sistema e a governarla. A mio avviso, infatti, tutta questa innovazione non ci fa e non ci farà male. Anzi. Io penso che oggi si viva molto meglio di come si viveva 30, 40 o 50 anni fa. Penso che la vita sia mediamente migliore, sia qualitativamente sia quantitativamente (la durata media della vita si è allungata). Non è quindi l'innovazione tecnologica in sé, ma è l'uso che ne facciamo (e soprattutto che ne faremo). Ed il suo impatto sulla nostra vita quotidiana e nel e sul nostro lavoro. Sempre più spesso infatti la digitalizzazione e l'automazione si sostituiscono all'uomo: robot infermieri come Hunova, Doro, Coro o Oro, bot che scrivono news al posto di giornalisti come Wordsmith, robot avvocati come Ross, bot ed assistenti virtuali che ci assistono - al posto di essere umani - ancora prima che ne abbiamo bisogno. 

Keynes ha introdotto il concetto di disoccupazione tecnologica ben prima della nascita del paradigma Industria4.0. E prima di lui Aristotele aveva discusso del rapporto tra l'uomo e le macchine. Nulla di apparentemente nuovo quindi. Quanto è successo in passato con l'introduzione delle macchine tessili, delle automobili, del videoregistratore e di tante altre innovazioni ci deve aiutare a capire ciò che sta accadendo oggi. Sono stati fatti numerosi e disparati tentativi di frenare l'affermazione della meccanizzazione e dell'automazione con l'obiettivo di fermare il progresso e salvare posti di lavoro. Tutti, chi più chi meno, falliti. Non c'è dubbio che l'innovazione tecnologica porti all'estinzione di numerose figure professionali. E più l'automazione, la robotica e l'intelligenza artificiale faranno progressi superando i limiti attuali e usciranno dai laboratori per entrare nella vita di tutti i giorni, più questo sarà vero. 

Chi lo nega dice il falso. Anche se c'è da dire che molto spesso la sostituzione non è di una intera figura professionale bensì di mansioni e attività da essa svolta (e questo impone una riflessione sulle attuali organizzazioni del lavoro e della produzione). Ma è altrettanto vero che l'innovazione (quella vera) porta anche a marginalità superiori, ad una qualità del lavoro migliore, alla creazione di nuovi lavori. Di lavori che oggi non esistono. Un recente studio sostiene che il 65% dei bambini che oggi frequentano le elementari svolgerà un lavoro che attualmente non esiste. Per cui si, perderemo dei posti di lavoro a causa dell'innovazione tecnologica. Perché se pensiamo di conservare i lavori che facciamo oggi, allora non c'è speranza. E se andiamo a contare solo quelli persi perché sostituiti dalle macchine il saldo sarà sicuramente negativo. E' così. Ma se consideriamo invece, e su un orizzonte temporale più lungo, la somma algebrica dei nuovi e dei vecchi lavori questo saldo sarà diverso e molto probabilmente positivo. Basti pensare a quanto successo sinora in Amazon dove la penetrazione dei robot è tra le più elevate ma nel contempo fatturato e numero delle assunzioni sono in continua crescita. Oppure alle auto senza conducente, quelle driverless. Lì il conducente non ci sarà più ma i progettisti, gli ingegneri, gli esperti di cybersecurity e visione artificiale, quelli di diritto e di norme, i tecnici e tutti gli altri che lavoreranno alle auto driverless non possiamo considerarli tutti insieme come i conducenti d'auto di domani? Questi nuovi conducenti non sono merito dell'innovazione? Al netto, i conducenti complessivamente sono più o meno di prima?

L'analisi non si può ovviamente fare solo così, vanno considerate altre variabili ed altri aspetti, ma io credo che la strada sia questa. La strada delle competenze. La strada della formazione. La strada che ci porterà un giorno a parlare di tradizioni che sono le innovazioni di oggi. Perché, e così rispondo anche all'ultima domanda, l'innovazione quando è vera, quando è disruptive, quando crea valore (non solo economico), quando ci fa fare meglio qualcosa, dopo un tempo più o meno lungo - diventa tradizione. Il resto è moda del momento. E' hype. Che con l'innovazione vera non c'entra assolutamente nulla. E visto che siamo a Napoli. E visto che qui la narrazione trita e ritrita ci porta sempre a confrontare tutto e a ragionare con i soliti stereotipi, prendiamo la più famosa, la tradizione napoletana per eccellenza: la pizza. Ma cosa è stata la pizza se non una delle più grandi innovazioni del settore alimentare? Efficiente, efficace, concept e design perfetti, service mode, l'user experience design e scalabilità di prodotto da manuale. La pizza è tradizione per questo, perché ha innovato (anche se a Napoli si dice scassato). Il resto è tutta roba buona a riempire le pagine di un giornale per poi finire in un cestino ed essere dimenticato, spesso già il giorno dopo. Per cui finiamola con la dicotomia tra innovazione e tradizione. 

Prediamo le nostre paure, che ci sono e sono tante, mettiamole insieme e studiando trasformiamole in opportunità. La differenza tra innovatori e conservatori è anche questa. Alan Turing diceva che l'innovazione la troviamo lungo l'incerta linea che separa l'iniziativa dalla disubbidienza. Se insieme vogliamo oggi lavorare alle tradizioni di domani, rompiamo gli schemi, usciamo dal consolidato e dalla nostra confort zone ed immaginiamoci cosa serve a questo mondo oggi affinché funzioni meglio. Cosa serve per lasciarlo migliore di come lo abbiamo trovato. 
Io l'innovazione la vedo così. Diversamente, non riesco. 

E di paura, se non si è capito, ne ho tanta anche io.

* Università degli Studi di Napoli Federico II
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