Napoli, appaltopoli e le manette rotte

di Alessandro Barbano
Domenica 2 Aprile 2017, 08:57 - Ultimo agg. 20:24
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Le scarcerazioni a Napoli hanno i piedi di piombo e i passi felpati. Sono macigni sul destino delle inchieste, ma rischiano di passare inosservate. Così, la sforbiciata del tribunale del riesame sugli arresti di Appaltopoli non riceve sui media neanche la metà dello spazio e della ribalta che l’inchiesta ebbe appena tre settimane fa, al suo deflagrare. Eppure, se su 28 custodie cautelari i giudici ne cancellano 15, ne riformano 9 e ne confermano solo 4, qualcosa di importante vorrà pur dire. Che, per esempio, la disciplina che consente in casi eccezionali di togliere la libertà ai cittadini, innocenti fino a prova contraria, qui ha regole diverse o, piuttosto, ha regole violate. Che, ancora, la magistratura a Napoli è una potente ma non giustificabile macchina di dolore umano.

Dispiace dover dire «la magistratura», usando un termine generico che coinvolge l’intero corpo dei magistrati, impegnati in una stragrande maggioranza a perseguire i reati con spirito di sacrificio e con rigore professionale. Dispiace che una piccola parte di loro, quella che procede facendo della legge ciò che vuole, e ciò che è utile a un disegno che con la legge nulla ha a che fare, occupi tutto il campo finendo per rappresentare per intero la magistratura nella sua proiezione sociale. Dispiace che un malinteso senso dell’indipendenza rimetta la più delicata funzione di una democrazia, quella a cui è sottesa la libertà individuale, a un soggettivismo privo di controllo nella fragilissima catena gerarchica della magistratura inquirente, e privo di una verifica efficace nel filtro preliminare della magistratura giudicante.

Dispiace che il resto della magistratura, quella che poi a posteriori pone argine agli eccessi e talvolta agli abusi, taccia nel dibattito pubblico in ossequio al suo riserbo istituzionale e, forse, anche a qualche prudenza su cui pure converrebbe, di questi tempi, fare una riflessione. Ma se la magistratura tace, la politica ignora del tutto. Sembra che la giustizia sia completamente uscita dal suo radar. Preoccupata, com’è, a dilaniarsi nelle sue faide, la politica continua a perdere contatto con il corpo del Paese, con le sue piaghe e i suoi dolori. C’è un guardasigilli che ha mancato l’impegno, assunto alla sua nomina, di rifondare il sistema in direzione dell’efficienza, della velocità e soprattutto del garantismo. Da mesi è in tutt’altre faccende affaccendato, nel tentativo di contendere all’ex premier la leadership del suo partito.

C’è un Consiglio Superiore della Magistratura che non ritiene di doversi occupare di come la custodia cautelare, cancro del sistema giudiziario italiano, dispieghi le sue metastasi nella società. Nessuna indagine conoscitiva, nessuna presa di coscienza responsabile, rispetto al numero di arresti puntualmente smentiti dai tribunali del riesame e all’impatto di inchieste deflagrate su media nelle indagini preliminari e poi evaporate nel percorso che porta al giudicato. È il caso dell’ultima Appaltopoli napoletana, scoppiata tre settimane fa con 66 arresti, 1579 pagine di verbali e intercettazioni, un impianto accusatorio che racconta una corruzione diffusa tra l’impresa, la politica regionale e locale, le Università, le professioni e i loro ordini, le aziende municipalizzate e perfino le strutture burocratiche dello Stato, come la Sovrintendenza alle Belle Arti. Una messa sotto accusa tanto generica quanto radicale di un’intera comunità, ritenuta ostaggio e complice di una cricca capace di condizionare gli appalti e truccare le gare pubbliche, asservendo al suo disegno criminale insospettabili professionisti.


È l’inchiesta che più di altre ha messo alla gogna la classe dirigente della città, inducendola a interrogarsi ancora una volta sulle dimensioni della corruttela, sulla sua pervasività sociale e, quasi, antropologica, tra mea culpa, abiure morali e qualche allarme provvidenziale a non giudicare solo le ipotesi d’accusa, tutte da provare, ma anche gli effetti e l’impatto sulla comunità di quei sessantasei arresti. Sessantasei arresti richiesti dai pm e quasi integralmente approvati dal gip, Federica Colucci, a conferma di come la terzietà della magistratura giudicante sia talvolta, nelle indagini preliminari, una buona intenzione contraddetta dai fatti: sappiamo oggi che una grandissima parte delle controfirme del gip hanno trovato una smentita pressoché totale dal quel giudice terzo che, per fortuna, non esiste solo a Berlino ma anche a Napoli.

E che ancora legittima l’onore della magistratura come funzione della democrazia. I sessantasei arresti però sono stati eseguiti e sono rimasti in piedi per 18 giorni, in nome di presupposti che oggi, dopo il rigetto del Riesame, mostrano tutta la loro infondatezza. Ma che da subito avevano fatto sorgere dubbi pesanti. Com’è noto la legge prescrive che l’arresto consegua a un pericolo di fuga, a un pericolo di inquinamento delle prove, o a un pericolo di reiterazione del reato, e che tali pericoli devono essere attuali e dedotti dalla stessa condotta dei soggetti coinvolti.

Ma, nel caso di Appaltopoli, le «prove» su cui il gip ha disposto quelle misure sono state cristallizzate nel luglio del 2015 con le perquisizioni di alcuni degli indagati, dopo le quali per un anno e sette mesi nessuno ha mai pensato di interrogarli, contestando loro le accuse e cercando riscontri alle congetture raccolte nei verbali di intercettazioni. Per diciannove mesi i faldoni dell’indagine sono rimasti a galleggiare tra procura e ufficio del gip, senza che nessuno monitorasse la concretezza e l’attualità di un pericolo di ripetere il reato, inquinare le prove o fuggire. Poi le misure cautelari sono scattate con un rumore di manette che, visto il numero di provvedimenti adottati, non è un tintinnio ma un fragore, e con un pacchetto di arresti domiciliari che, ancorché meno cruenti, tuttavia portano con sé drammi familiari, tracolli professionali e isolamenti sociali, ferite mai più rimarginabili nella vita delle persone indebitamente coinvolte. Tante, troppe.

Di questo dramma c’è qualcuno disposto ancora ad occuparsi? C’è qualcuno disposto a valutare che peso e che esito hanno avuto le inchieste che negli ultimi dieci anni hanno azzerato a Napoli un’intera classe dirigente, dalla Regione al Comune, dal Porto alle commissioni tributarie, dai vertici della polizia agli ordini professionali, salvo poi concludersi in gran parte con assoluzioni di massa? C’è qualcuno disposto a sottrarre all’oblio del tempo che passa il carico di dolore immotivatamente prodotto in una comunità? Sostenere queste tesi crea un legittimo imbarazzo in chi, come chi scrive, pensa che l’azione della magistratura a tutela della legalità sia imprescindibile e riconosce che un sistema civile vischioso alberghi ancora nella società napoletana e richieda un’attenzione speciale e atteggiamenti rigorosi da parte di tutti. Per evitare che scivolate deontologiche e opache contiguità siano il brodo di coltura di favori clientelari, illiceità, quando non di reati.

Perciò ben vengano le inchieste, come quella in corso su Appaltopoli, sul cui merito è giusto e doveroso che si approfondisca e, se necessario, che si giudichi.
Ma è il metodo che qui si intende mettere in discussione. È il prezzo, troppo alto per il consorzio civile, che si contesta. Perché il polverone alzato da indagini così condotte, lungi dal ripulire il clima e incentivare pratiche e relazioni fisiologicamente virtuose, apre un sospetto permanente sulla società, dissuade i migliori dall’assumere responsabilità e innaffia il populismo, spianando la strada alla peggiore classe dirigente che il Mezzogiorno d’Italia abbia mai avuto. Anche su questo, prima o poi, qualcuno dovrà interrogarsi.
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