Napoli, Plebiscito blindato per Battiato in concerto la stagione dell'amore

Napoli, Plebiscito blindato per Battiato in concerto la stagione dell'amore
di Federico Vacalebre
Lunedì 5 Giugno 2017, 19:32 - Ultimo agg. 6 Giugno, 17:45
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All’ombra dei vulcani - il nostro Vesuvio e l’Etna - magmaticamente esplorati dal lavoro di Biasiucci Imma Villa accende la «Luce del Sud» e apre il nuovo Napoli Teatro Festival Italia leggendo i «Canti lungo la fuga» di Ingeborg Bachman: «Istruiti nell’amore/ per diecimila libri/ colti per il tramandarsi/ di gesti immutabili/ e giuramenti stolti/ ma solo qui/ iniziati all’amore/ quando la lava discese/ e il suo alito ci colse/ al piede del monte,/ quando infine il cratere sfinito/ più non trattenne la chiave/ per questi corpi serrati/ entrammo in spazi incantati/ e illuminammo il buio/ con la punta delle dita».

Qualcuno, tra i quindicimila in piazza si «tocca» aspettando le canzoni di Franco Battiato, mentre le anime salve volute dal direttore artistico come ospiti d’onore - i posti a sedere sono stati riservati a associazioni che lavorano nel mondo del disagio, dai ragazzi di Nisida alle donne vittime di violenza («persone che un posto in prima fila non l’hanno mai avuto») - si guardano attorno stranite. Fischi accolgono la salita del governatore Vincenzo De Luca sul palco, nonostante le parole di solidarietà con le vittime di Londra.


Poi «L’era del cinghiale bianco» dà inizio al concerto, ed alle videoproiezioni del fotografo napoletano, sciabolate caravaggesche nella notte napoletana che sfida anche la paura dopo il dramma di piazza San Carlo a Torino, sperando che la protezione antiterrorismo dei new jersey in cemento sia più un esorcismo che altro. «Up patriots to arms», «No time no space», «Shock in my time» riscaldano il pubblico, la Symphony Orchestra e l’Electric Band ci danno dentro, Battiato domina la piazza con il suo carisma. Tra i «diecimila libri» che Cappuccio e il compositore catanese hanno in comune ecco spuntare «La scienza nuova» di Giambattista Vico: Mimmo Borrelli si misura con il genius loci, con lo stralcio dal «Libro secondo: dalla sapienza poetica». Più tardi toccherà a Fabrizio Gifuni attingere all’Auden di «Addio al Mezzogiorno», saluto a Ischia ed al Mezzogiorno, invocando «i miei sacri nomi meridiani: Pirandello,/ Croce, Vico, Verga, Bellini,/ per benedire questo paese, le sue vendemmie e gli uomini/ che lo chiamano casa loro: sebbene non sempre si possa/ ricordare esattamente perché si è stati felici,/ non ci si dimentica d’esserlo stati». Di nuovo l’ombra minacciosa di un vulcano, di nuovo quell’interrogativo: e se l’unica possibile luce - del Sud e non - stesse nel ricordo?. Di quello, in fondo, parlano i versi d’amore antico e usurato di «Le nostre anime» («C’eravamo tanto amati e non l’abbiamo capito, forse eravamo troppo giovani, legati a storie di sesso»), come la traduzione della «Chanson de vieux amants».

L’occasione suggerisce un repertorio che sceglie nella produzione del santautore e filosofautore tra echi mistici e razionali, tra Occidente e Oriente: «Io chi sono?» e «Sui giardini della preesistenza» anticipano la feroce attualità di «Povera patria» come la confessione di aver vissuto di «L’animale», ammissione di debolezza carnale di fronte alle presunte pretese di superiorità spirituale e/o intellettuale: «L’animale che mi porto dentro/ non mi fa vivere felice mai/ si prende tutto anche il caffè/ mi rende schiavo delle mie passioni/ e non si arrende mai e non sa attendere/ e l’animale che mi porto dentro vuole te». Poi, inesorabili, divise con il coro a bocca chiusa ma non troppo del Plebiscito, arriveranno «La stagione dell’amore» che viene e va, «La cura» che tutti vorremmo promettere ai nostri cari, l’urlo liberatorio di «Cuccurruccuccù», la ricerca frustrata di un «Centro di gravità permanente», il desiderio di «Voglio vederti danzare» che si trasforma in spudorato karaoke, le visioni colte della «Prospettiva Nevskj» e de «I treni per Tozeur».
Eccola la luce del Sud inseguita, ecco i bis, ecco la piazza-discoteca che però invoca «Era de maggio», che alla Bachman, a Vico, a Auden chiede di affiancare il supremo Di Giacomo, quella morbida elegia, quella perfetta melodia che arriva prima di «E ti vengo a cercare» e «Stranizza d’amuri», a gemellare i dialetti e non solo i crateri. Tutto si tiene, o forse no, qualcuno non ha gradito gli intermezzi letterari, non si è accorto che non si trattava di uno show come gli altri, ma di un tentativo di restituire un festival alla comunità per cui è nato, di non ritenere la cultura un rito elitario, di riprendersi anche quella piazza in cui, ormai un milione di anni fa, iniziammo a parlare per la prima volta di un possibile rinascimento napoletano.

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